Antonia e l’oca Medea
Antonia era una donna esile, fragile, almeno all’apparenza perché invece aveva una forza e una volontà che sembravano nascere al di fuori di lei.
Quando andavo a casa sua la vedevo sempre affacendata, aveva cento cose da fare, mai ferma, almeno durante il giorno e chissà se anche quando dormiva e si assopiva nel grande lettone alto, le cose da fare non le mulinavano in testa come le faccende del giorno dopo. Della sua vita ci sarebbero tantissime cose da raccontare e non basterebbe un libro, solo ad elencare i sacrifici che ha fatto per tirare su al meglio la sua famiglia, si potrebbero scrivere fogli e fogli di carta.
Un giorno di primavera vicino alla Pasqua, Antonia decise di fermarsi un po’ di tempo con me, forse voleva prendere fiato e con grande sorpresa pur sapendo che eravamo rimasti soli, iniziò a narrare una sua esperienza, sembrava avesse voglia di liberarsi di un segreto, perché io lo potessi ricordare. Ci siamo seduti sulla poltroncina nel “tinello” e cominciò a dirmi quanto le era capitato tanti anni prima e con dovizia di particolari. Si esprimeva nella sua parlata veneta e alcune parole proprio non le capivo e dovevo chiedere il significato, dato che ormai le avevo dimenticate.
Cominciò così: “senti cara a go na roba da dirte, ma te racomando no te ghe da dirlo a nesun, promesa“. “senti cara ho una cosa da dirti ma non devi dirla a nessuno, è una raccomandazione che ti faccio, promesso?” Sì, sì ho detto io. “Tanti ani fa….. tanti anni fa quando ero una ragazzina (di tutto il discorso lo riportiamo in italiano altrimenti poi è difficile tradurlo) ci siamo preparate con la mamma per andare alla fiera di san Martino a Piove di sacco (una cittadina della saccisica padovana), perché lei doveva comprare “dei pulsini” “dei pulcini” per farli ingrassare e poi prepararli per le feste di primavera, la Pasqua, la comunione e la cresima di mio fratello più piccolo. Siamo partite insieme con la bicicletta, io mi sono seduta sua una tavoletta messa tra il manubrio e la sella in sostituzione del tubo che avevano le biciclette degli uomini. Faceva freddo e così ci siamo protette con un cappottino e portavamo con noi anche una piccola scatoletta tutta piena di buchi che doveva ospitare i pulcini da portare a casa.
A quel tempo ero piccola avevo 13 anni ma pur di stare con la mamma l’avrei seguita fino ai confini del mondo e quel giorno mentre stava per albeggiare e dai campi stava salendo una bella nebbia fitta, senza timore e dopo un viaggio di circa un’ora e più, percorrendo delle stradine di ghiaia, siamo arrivati a Piove di sacco. Dopo aver depositato la bicicletta allo “stallo” “parcheggio” e tenendo sottobraccio la scatoletta ci siamo prese per mano e con fare intimorito siamo entrate nella fiera. Ogni ben di dio era messo in esposizione e ogni uno cercava di attirare le persone invitandole ad osservare quello che avevano portato, c’erano animali dappertutto e si faceva fatica ad individuare i migliori e quindi a scegliere quelli giusti per noi. Ad un certo punto mia mamma si fermò da un signore che aveva allestito un piccolo recinto dove aveva messo della paglia per terra e sopra gironzolavano pochi pulcini e alcuni anatroccoli, non so perché avesse scelto quel recinto e col tempo ho potuto immaginarlo visto che il signore si distingueva per il suo portamento affascinante, elegante, vorrei dire bello e poi era accompagnato da un giovanotto altrettanto bello, dal sorriso magnifico, le spalle larghe, la voce educata. Convinta dalle loro lusinghe acquistò dei pulcini e un anatroccolo e li ha messi dentro alla scatoletta, ci siamo incamminate per tornare a casa, solo che stavolta per evitare di cadere per terra, la strada di ritorno, l’abbiamo percorsa tutta a piedi, fino al nostro paesino e alla nostra casona, poi siamo entrate nella stalla e abbiamo sistemato il nostro acquisto dentro al recinto preparato vicino al vitello.
Ogni giorno la mamma andava a far visita ai pulcini e all’anatroccolo e li accudiva con cura stando attenta a non esagerare con il grano e la farina per non farli ingozzare e per non farla mancare agli altri animali e soprattutto alle persone della casa.
Pochi giorni prima della festa di Natale si ferma davanti al cancello della corte un ragazzo e dato che mi aveva visto gironzolare nei paraggi mi chiama per nome al che rimasi piuttosto sorpresa, poi chiese gentilmente di essere accolto ed io gli sono andata incontro per invitarlo ad entrare e gli ho chiesto se voleva parlare con la mamma ma lui rispose di no perché desiderava farlo con me. “Par dirla curta” ” per farla breve” “el voleva cognoserme” “voleva vedermi da vicino” e infatti poco dopo mi resi conto che lo avevo visto il mese prima alla fiera di Piove di sacco e ci aveva venduto i pulcini e l’anatroccolo si presentò col nome di Amedeo e cominciò a farmi alcuni complimenti che se lì per lì non mi stupirono più di tanto poi quando cominciò a dimostrare il suo interesse per me allora cominciai a preoccuparmi, una sola frase mi uscì dalla bocca “come astu fato a catarme” “come hai fatto a trovarmi“, chissà quanta gente aveva incontrato durante la fiera e solo io l’ho così colpito nella sua immaginazione. “Sastu noialtri ‘ndemo pae case a vendare i poeastrini, no soeo ae fiere” “devi sapere che noi andiamo per le case di campagna a vendere i nostri pulcini non solo alle fiere” da quanto mi ha detto ho capito come aveva fatto a trovarci. Immediatamente ho rivisto il bel ragazzo che avevo incontrato un mese prima a Piove di sacco, lui non mi staccava gli occhi di dosso e poco dopo mi invitò a rivederlo. Io allora risposi che doveva per prima cosa presentarsi ai miei genitori e dopo una settimana si ripresentò a casa nostra per farlo.
Da quel momento è cominciata la nostra storia di fidanzati, lui era gentile, affettuoso, generoso, protettivo e in più si sforzava di apparire come un giovane che sapeva bene il fatto suo. Nel periodo estivo cominciò ad invitarmi a ballare e così con lui ho cominciato a frequentare la “Rotonda” di Codevigo (una balera di campagna), io non ero capace di ballare e lui con molta pazienza mi insegnò a fare i primi passi e poi ad andare a tempo e infine a seguire la musica e fu così bravo che ad ogni nostro ingresso in pista tutti rimanevano ammirati dalla nostra bravura. Una sera quando l’imbrunire faceva capolino mentre mi accompagnava a casa mi strinse a sé e mi baciò sulla bocca, una vampata di fuoco mi avvolse che quasi svenni, era il timbro che la nostra storia sarebbe durata all’infinito. Passarono un anno mezzo e poi arrivò un nuovo autunno e anche la fiera di san Martino (11 novembre), Amedeo con il suo recinto di pulcini, stavolta molto più grande del solito era presente, mi avvicinai per salutarlo e lui si infiammò ma non voleva distaccare l’attenzione da alcune clienti che sembrava lo avessero stregato, poco dopo mi salutò e io di rimando gli dissi “Medeo dime che intension che te ghe su noantri” “Amedeo dimmi quale futuro abbiamo noi due” “el se restà inocà” ” è rimasto basito” e di risposta mi dice “go intension de scrivarme al’Università de Padoa” “ho intenzioni di frequentare l’Università di Padova per diventare dottore in agraria” “ghe voe tanti schei e no penso che a queo” “ci vogliono tanti soldi e ormai ho deciso di fare solo quello“. E io ho risposto “senti mi so pronta a spetarte ma no masa, vedi ti” “senti io sono pronta ad aspettarti ma non per troppo tempo” poco dopo da un suo vicino di fiera acquistai un’oca di quelle che devi ingrassare e poi metterla via tagliata a pezzi (oca in onto), per farla durare a lungo solo che io l’ho presa come un pegno, cioè se Amedeo tornava a casa mia e mi chiedeva di sposarlo io avrei ucciso l’oca e con quella poi avrei fatto il piatto più prelibato del nostro matrimonio.
Ma dopo quell’incontro Amedeo sparì senza lasciare dietro a sé nessuna notizia, si sapeva che si era trasferito presso dei parenti a Padova ma nessuno poteva fornire notizie fresche sugli studi all’Università, per esempio, come aveva detto. Passò molto tempo e di fatto scomparve e l’oca intanto era diventata grassa quel tanto che mia mamma ogni tanto mi diceva di tirarle il collo, io invece rimanevo ferma nel mio proposito di ucciderla solo al ritorno di Amedeo. Non ti dico la tristezza che mi accompagnò in tutto questo periodo della mia vita, ma poi rassegnata ripresi ad essere la ragazza di sempre, infatti mi sono sollevata dallo sconforto e aderendo all’invito della mamma, anche lei dispiaciuta a causa della mia vicenda sentimentale, arenata per colpa di quel bellimbusto, mi convinse ad uscire di casa molto più spesso.
Un giorno presi la bicicletta per fare degli acquisti a Piove di sacco, ricordo che era giorno di mercato e dovevo comperare delle stoffe per rinnovare l’arredo del tinello che di lì a pochi giorni sarebbe stato usato per festeggiare la Pasqua e chi incontro nell’angolo assegnato agli “poeamari” “venditori di polli” proprio Amedeo ma non era da solo perché vicino a lui c’era una ragazza e mi sembrava molto giovane, con una vistosa pancetta perché era in attesa di un figlio. Mi misi in un angolo ad osservarli e mi sembrava che non si occupassero troppo dei clienti perché continuavano a farsi un sacco di carezze, moine, bacetti, sorrisi, quel tanto che rossa di rabbia annodai in testa un bel fazzolettone e mi avvicinai, lo salutai e gli dissi “se proprio rivà l’ora de tirare el colo a l’oca che go casa” “è arrivato il momento tanto atteso per l’oca che ho nel pollaio” e anche quella volta “el se restà inocà” “è rimasto stupito” poi sono ripartita mentre la ragazzina, che ho sentito si chiamava Lina, continuava a dirgli “chi sea sta donna, farabuto” “ma no Lina no ea conoso” “chi è questa donna gran bugiardo” “non preoccuparti Lina che è solo una ragazza di passaggio“, rimasero a bisticciare per lungo tempo, intanto io sono andata al banco delle stoffe e dopo aver comprato quello che mi serviva sono ritornata a casa, era già pronto in tavola ma io di corsa sono andata nel pollaio e presa l’oca che avevo chiamato Medea le tirai il collo e la portai in casa dicendo “par Pasqua se magna oca in tocio“, mia madre capì al volo e non esitò ad aiutarmi per farmi passare quella cocente delusione, anche i cuscini del mio letto dovettero assorbire le mie lacrime fino alla “festa granda”, festeggiata pochi giorni dopo. L’oca dovette rimanere sul fuoco per diverso tempo perché le sue carni erano diventate sode e abbastanza salde, comunque la mamma grande cuoca la preparò per bene e con quell’oca e il suo sugo si imbandirono i piatti migliori di quella Pasqua.
Passata la festa e ritornata l’estate ripresi a frequentare la “Rotonda” di Codevigo (una balera di campagna) dove ad ogni festa cambiavo ballerino per fare il giro di valzer solo che una domenica di fine settembre, ricordo di essere sta invitata da un bel ragazzo che mi abbracciava e mi accompagnava come faceva Amedeo, in breve tempo siamo diventati una coppia fissa, fino al nostro matrimonio. Dopo infatti ho smesso di andare alla balera perché dovevo accudire alla nostra nuova famiglia. Di Amedeo non seppi più nulla e neppure cercai notizie su di lui, però ogni anno sono ritornata alla fiera di san Martino e ogni anno ho comprato un’oca e sempre l’ho chiamata Medea e ad ogni Pasqua la facevo finire nel tegame “col tocio“ e nel ragù “coi bigoi“, non so se era il mio modo di vendicarmi della sua mancata serietà, ma ogni volta che preparavo l’oca mi sentivo diversa e non so spiegarne la causa, anche le pietanze miglioravano ogni volta di più.
Quando ho ascoltato questa storia raccontata dalla uditrice del “segreto di Antonia“, ne sono rimasto colpito perché il finale pur essendo cruento almeno ha risparmiato delle vite umane, invece ai giorni nostri la vendetta alberga nell’animo degli uomini e provoca omicidi che spesso sono riportati nelle pagine di cronaca dei giornali. Si può anche dire “povera oca” ma forse è meglio mangiare “un’oca in tocio” che finire in carcere a marcire a causa di una vita uccisa dal’odio e dal rancore.