Colombi e bovoletti

“ Sior, astu sentì! I vol tajare i cojoni”, “Senti mi è giunta voce che vogliono togliere i c…”,
“Mah!” espressione di dubbio.
“Sastu caro! l’altra volta i gà taja i osei” “lo sai sì o no! che l’altra volta ci hanno tolto le Oselle”.
“Mah! A furia de tajare i me slonga ea quaresima” dal dubbio all’affermazione per dire che di sforbiciate in sforbiciate si allungano i giorni di sacrificio.
“Ancoi speremo de no vedar taja anca i bovoletti”, “adesso speriamo che non tolgano anche le chiocciole”.
A qualcuno sicuramente sarà nata qualche perplessità su questo dialogo, di pura fantasia, ricreato in piazza san Marco nel giorno della vigilia della domenica delle Palme, quando Venezia era al suo massimo splendore.
Per spiegare bene tutto bisogna iniziare dalle paure che si stanno comunicando questi due nobili signori perché hanno saputo che forse una nuova legge era in discussione a Palazzo Ducale e proprio in quei giorni di poco antecedenti alla festa di Pasqua.
Sono preoccupati perché si ricordavano della decisione presa alcuni anni prima di non consegnare più le cinque oselle dai piedi rossi, poi ridotte a due (uccelli selvatici tipici della valle di Marano, a nord di Venezia vicino a Grado, dove arrivavano per svernare durante l’inverno) e date in omaggio ad ogni componente del Maggior Consiglio, la vigilia di Natale. Furono sostituite per decreto nel 1521 da una moneta d’argento chiamata con lo stesso nome del volatile, Osella del valore di un quarto di ducato, per qualcuno non cambiava di molto, di certo però era chiaro che si perdeva l’antica tradizone di preparare la selvaggina, regalata dal Doge, nel giorno di Natale.
La parola “osei” sono in sostanza le oselle di Marano che a causa della loro parziale estinzione non erano più adatte a diventare una regalia e per questo il decreto le sostituiva con una moneta d’agento, mentre i “cojoni” sono anch’essi il risultato di un’altra tradizione che avveniva in piazza san Marco la domenica delle Palme e che per decreto era anch’essa destinata a scomparire, ecco spiegata la paura dei due notabili veneziani.
Il mattino presto della domenica delle Palme, tutti i senatori, e tutte la cariche più prestigiose del consiglio, si recavano a Palazzo Ducale e si preparavano assieme al Doge, poi tutti assieme uscivano in processione con le palme in mano, confezionate dalle suore, entravano dentro alla basilica marciana e assistevano alle funzioni presiedute dal patriarca con tutta la curia, poi in corteo raccolto facevano ritorno al Palazzo ma prima si fermavano sul sagrato e liberavano svariati stormi di colombi che alle loro zampe era stato applicato un pezzetto di piombo per appesantirli. I colombi spiccavano il volo e andavano sopra ai tetti ma in seguito appena si fermavano da qualche parte per beccare facevano molta fatica a ripartire e così qualcuno li prendeva e poi li preparava per il giorno di Pasqua. Dare il nome di “cojoni” a questi piccioni fu abbastanza facile, non immediato, ma venne da sé: “coeonbi, cojombi coi piombi alla fine semplicemente cojoni”, piccioni tonti. Si catturavano senza far fatica a parte quelli che non erano provvisti dei piombi perché li avevano persi in volo o erano il frutto dei nuovi accoppiamenti. Se qualcuno si avvicinava per prenderli spiccavano il volo impauriti lasciando di stucco l’avventore e così dopo l’ovvia imprecazione qualcuno ci scherzava dicendo “chi cojona resta cojonà”, e per esteso “cerca di sincerarti su quello che fai per evitare di trovarti senza nulla in mano”.
Eccovi spiegate due parole del dialogo iniziale, come si può leggere non hanno nulla a che vedere con allusioni che si potevano pensare di altro tipo in un primo momento, sappiate comunque che i doppi sensi nella parlata veneta sono molto ricorrenti.
L’altra parola i “bovoleti” sono le lumache dei giardini, quelle che hanno il guscio, nel nostro racconto sono dei panetti di pane che avevano la forma identica delle chiocciole, venivano regalati al popolo veneziano il Giovedì Santo. I 34 forni di sant’Elena (isola della laguna vicina all’Arsenale) ne sfornavano quintali e poi li mettevano sulle ceste per essere distribuiti, servivano per sfamare molte persone dopo un periodo di forti sacrifici come è sempre stata la Quaresima e questo la dice lunga sul modo di governare che aveva la Repubblica Serenissima sempre attenta anche al sostentamento della sua gente.
Ecco alcune ricette veneziane, molto antiche. Pasticcio di colombi: 4 colombi, 1 cipolla, 1 carota, 1 gamba di sedano, olio extravergine di oliva, sale e pepe, pane raffermo, vino bianco secco, qualche fetta di lardo, del brodo di carne o il brodo dei colombi.
Lavare e mondare i colombi, in una pentola preparare un soffritto con olio e cipolla, aggiungere acqua, sedano, carota e una manciata di sale e mettere i colombi a lessare (broare, bollire). Quando sono quasi cotti tirarli fuori e togliere le ossa e sistemare la carne in una pirofila facendo degli strati, uno di pane raffermo abbrustolito nell’olio e bagnato di vino bianco, poi sopra la carne di piccione con delle fette di lardo, altro pane e poi altro strato di carne. Mettere in forno o sulla stufa e lasciare cuocere a fuoco dolce bagnando ogni tanto col brodo che avevamo messo da parte. Terminare la cottura e servire con fette di polenta abbrustolita.
Il vino consigliato è sicuramente un rosso del Piave e va benissimo il Cabernet Franc, anche il Merlot, per il suo gusto fruttato.
Torresani (piccioni di torre) allo spiedo: 4 torresani, 10 bacche di ginepro, 2 foglie di alloro, 120 gr. di lardo a fette, un rametto di rosmarino, olio extravergine di oliva, sale e pepe.
Lavare e mondare i torresani dopo averli fiammati, poi asciugateli con uno strofinaccio, preparate un pesto di bacche di ginepro, alloro e olio e immergete il rametto di rosmarino, con questo pennellate l’interno del torresano, avvolgetelo con le fette di lardo e infilzatelo in uno spiedo. Dopo aver fatto lo stesso con gli altri torresani metteteli a cucinare o sulle braci di un focolare o sul vostro forno da cucina con il girarrosto, lasciateli sul fuoco per 30/40 minuti poi pennellateli di nuovo e cucinateli a dovere, sfilateli e serviteli caldi.
Accompagnateli con fette di polenta e del buon vino rosso, Cabernet o Merlot o Friularo.
Per non lasciare a bocca asciutta color che sono appassionati di piatti a base di chiocciole ecco una gustosa ricetta che mi ha lsciato una gentile nonna, molto simpatica.
Chiocciole con l’erba cipollina: 1 kg. di chiocciole, 2 spicchi d’aglio, 1 cipolla, dei bei ciuffi di erba cipollina, 2 cucchiai di pan grattato, 2 cucchiai di grana grattugiato, olio extravergine di oliva, sale e pepe.
L’inizio di questo piatto comincia con la cattura delle chiocciole e le trovate nelle siepi bagnate dalla pioggia primaverile, devono essere belle grosse (qua si guarda il guscio, ovviamente) e poi le mettete in una lettiera di segatura dove si devono purgare per almeno due giorni. Lavatele in acqua corrente e cuocetele in abbondante acqua calda per alcuni minuti. Scolatele e lavatele nuovamente, tiratele fuori dal guscio (si può usare uno stecchino) e tagliatele a pezzetti, ricordarsi di togliere l’intestino che è un sacchetto scuro nella parte terminale della lumaca. Preparate poi un soffritto di cipolla, olio e aglio senza imbrunirlo, aggiungere l’erba cipollina tagliuzzata e lasciatela cuocere un poco, poi si aggiungono le chiocciole tagliate e si lasciano sul fuoco medio per almeno tre ore, mezz’ora prima della fine aggiungere il pan grattato e il formaggio grana. Mescolate accuratamente fino a formare un composto morbido, se necessario aggiungere del burro. Ultima fase di questo piatto è la distribuzione mettendo dentro ai gusci quello che avete preparato prendendo poco per volta con un cucchiaino piccolo, facendo molta attenzione a non rompere i gusci. Distribuite le chiocciole su una pirofila da forno e mettetele in frigo e il giorno successivo infornatele per alcuni minuti prima di servirle con le fette di polenta bianca.
Si servono calde e si deve tirar fuori dal guscio il composto preparato il giorno prima, a questo punto si possono anche rompere, ma è molto più bello succhiarle, annaffiare con del buon vino rosso fresco, molto bene il Raboso.
Queste tradizioni adesso sono solo un ricordo che rileggiamo volentieri sui libri comprati nelle ultime e poche librerie di Venezia. I piccioni sono diventati una coreografia della piazza e sono usati per fare le foto ricordo da far vedere agli amici rimasti a casa.
Altro piatto molto in voga nelle trattorie trevigiane la Sopa Coada, nessuno ne conosce l’origine ma proviamo a pensare all’etimologia dei termini: Sopa vuol dire Zuppa in veneto e Coada può derivare forse da Cova e dopo quello che avete letto non sono forse i piccioni appesantiti dai piombi che assumevano un portamento da cova o anche può essere l’unione di due termini piccioni bolliti (colombi broadi). Bisognerebbe altrimenti, ricercare il termine nei libri di ricette che si stampavano a Venezia nel 1500 e per questo le nostre sono solo delle proposte, a voi le conclusioni. Buona Settimana di Pasqua per tutti, a Venezia, ovviamente.