Da san Martin castagne e vin (grinton)
“La dimenticanza perde i popoli e le nazioni, perché le nazioni altro non sono che memoria“. Questo è quanto scriveva Niccolò Tommaseo, scrittore di fama, laureatosi a Padova agli inizi dell’ottocento, di origini dalmate.
Tralascio di scrivere la storia e la vita di san Martino che potete travare in moltissimi altri modi diversi da questo semplice diario, qui vorrei scrivere un fatto vero, di quelli che si ricordano, perché legato a questo periodo, del tutto simile a quello vissuto dai loro padri e i dai padri dei loro padri, quindi una esperienza tipica dei paesi di campagna che hanno in san Martino un riferimento importante perché legato a delle tradizioni che solo nel mondo rurale di un tempo richiamano a dei riti che non lasciano spazio alla casualità e per questo vissuto da una famiglia che conosco.
Nelle campagne della bassa padana oltre a ricordare le vicende del santo di Tours per tutti o quasi tutti si chiudeva la stagione agraria e perciò si dovevano stilare i bilanci, i resoconti potevano far bene come pure il contrario se l’annata era andata storta. La terra era l’unica fonte di reddito e perciò se aveva portato frutto ci si presentava dal padrone del terreno e si poteva rinnovare il contratto di affitto, ma se invece il raccolto era stato scarso e il padrone non era conciliante allora si doveva subire l’umiliazione di dover abbandonare la casa occupata per trovare un nuovo fondo da lavorare. Ecco allora che le donne preparavano le onoranze (capponi, galline, anatre, uova, in qualche caso dei soldi) e le mettevano in capienti ceste di vimini e poi a piedi si partiva per raggiungere la città dove risiedeva il proprietario dei campi presi in affitto. Poteva capitare che il padrone risiedesse in una città lontana e allora ci si recava nella casa del fattore, persona fidata, a volte poco raccomandabile, che viveva nella fattoria dove aveva l’incarico di amministrare i beni a lui assegnati dal padrone.
Detto questo poteva capitare di essere fiduciosi perché le provviste da consegnare erano il giusto compenso da dare al proprietario e allora per strada si cantava felici e appena giunti al portone era normale rassicurare gli animi magari stringendosi forte le mani, poi si veniva accolti nel tinello e consegnate le provviste alla fine si tirava fuori dal fondo della cesta dei rufioi fatti con la marmellata di fichi, dei ravioli dolci, fritti nell’olio caldo. Poteva capitare che la padrona, dopo aver fatto accomodare le persone presenti, tirasse fuori dalla vetrinetta una bottiglia esile di vetro raffinato e versasse in altrettanto esili bicchierini del rosolio, un liquore preparato a metà estate, facendo macerare nell’alcol etilico dei petali di rose, colti dalle sue piante che aveva nel brolo, allungato con dell’acuqa e dolcificato con alcuni cucchiaini di miele.
Se avveniva questo voleva solo dire che tutto era andato per il meglio e posta la firma sul libretto degli affitti e dopo un rapido resoconto aggiornando delle vicende del piccolo paese o anche solo della corte, le nuove nascite in casa, nella stalla, dai vicini, la vita del curato se c’era affinità con lui e altre piccole cose che riguardavano la salute ci si salutava per consentire il rientro a casa dei convenuti.
Solo che a questo punto e se il tempo lo permetteva si preferiva allungare la visita in città fino a raggiungere la basilica di sant’Antonio, per ringraziarlo del bene che stava facendo alla famiglia, si prendevano dalle tasche qualche spicciolo e si comprava una candela e la si accendeva alla sua tomba dopo aver sfiorato con le mani la lastra di marmo del sarcofago che contiene il suo corpo e dopo, ovviamente, aver recitato alcune preghiere. Poi via verso le piazze del centro di Padova dove stazionavano dei venditori di frutta e qui con i soldi rimasti, pochi, si compravano delle castagne arrostite, un cartoccio per uno, di quelli piccoli perché i soldi dovevano bastare anche per l’acquisto del vino, un vino novello del vitigno detto Clinton (grinton). L’uva di questa vigna matura molto presto e se allora “da san Martin ogni mosto deventa vin” questo lo si poteva già bere, era già maturo al punto giusto, si sentivano gli aromi e per chi ha la fortuna di riassaporarlo è sicuramente una delizia. Al tempo di questa storia, questo vino, era sicuramente quello che costava di meno e quindi alla portata di chiunque e poi il suo sapore leggermente asprigno si combinava benissimo con quello delle castagne, una mescolanza di gusti che se alternati in modo equilibrato, hanno dato e possono dare un grande piacere, poi aveva una gradazione alcolica poco elevata e quindi si bevevano anche più di un bicchiere per volta ma non è il caso di questo piccolo drappello. Peccato che quest’uva a causa dell’elevato numero di tannini che contiene non viene più coltivata in maniera intensiva e neppure il vino viene commercializzato; abbiamo solo la memoria di ricordarlo con piacere.
Appena terminata la pausa in città si ripartiva con passo spedito perché la strada da fare per raggiungere la casa era piuttosto lunga e da quel momento in poi non esistevano distrazioni anche se nelle piccole botteghe del centro della città si stavano preparando le vetrine per il cambio di stagione. “A san Martin se veste el grando e anche el picenìn“, dall’11 novembre, si vestono i grandi e i piccoli, perché sta per arrivare l’inverno e allora se i contadini dovevano arrangirsi almeno i cittadini e ancor meglio i padroni di tanti beni potevano sostituire qualche capo di vestiario, con i soldi appena ricevuti.
In alcuni paesi come Piazzola sul Brenta, Piove di sacco, Campo san Martino e tanti altri ancora compreso Ronchi del volo, nel padovano, che hanno scelto il santo come patrono, la festa continuava con la sagra mentre a Venezia i bambini cantavano per le calli: siora Gegia xè tanto bea, in mezo al peto ea ga na stea. La saria ancora più bea, se la gavesse in mezo el cuor! E col nostro sachetin, Viva viva, san Martin.
E così succedeva che stimolati dalle buone cose esposte nei banchetti della sagra qualcosa da portare a casa c’era sempre e pure quei bambini che raccoglievano dolcetti bussando nelle abitazioni passando di calle in calle. Ma la città dei dogi si stava preparando all’altra “festa granda” quella della Madonna della Salute che si festeggia il 21 di novembre. E qui ci sta un’altra storia che spero di raccontarvi presto.