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El diavolon

El diavolon

Quando vivevo in una osteria, che era anche bottega “de casoin” mi capitava di assistere a degli episodi che avevano del fantastico. A noi bambini poteva risultare facile mettere tanta fantasia agli avvenimenti perché questa era la nostra natura e poi gli adulti ci aiutavano in continuazione a svilupparla. Infatti le nostre letture erano quasi sempre dei racconti immaginari e a scuola le cose non cambiavano anzi nei nostri libri di lettura tali racconti ricchi di inventiva e distanti dalla vita reale erano stampati con grande abbondanza.
I giorni vicini alle feste di Natale testimoniavano quanto ho appena scritto e infatti nei nostri libri i brevi racconti erano legati alla stagione che si stava vivendo, l’autunno e poi tra pochi giorni l’inverno, le altre, erano fiabe tratte dalle varie storie nordiche che in qualche modo ci preparavano alle feste natalizie, sempre arricchiti di momenti fantasiosi e immaginari.

fratelli e cugini davanti alla porta dell'osteria (che adesso non c'è più)

fratelli e cugini davanti alla porta dell’osteria (che adesso non c’è più)

Per noi, le feste che stavano arrivando, ci mettevano una strana ebbrezza e una gioia innata ci invadeva perché vedevamo che le nostre famiglie erano impegnatissime (da bambino abitavo in co-abitazione con gli zii e i cugini, non eravamo pochi si stava ben stretti e ci si divertiva tanto) a causa dell’avvicinarsi dei giorni della ricorrenza del Natale, nell’osteria si dovevano cambiare le proposte da portare in tavola e nel negozio qualcosa di nuovo si doveva comprare per venderlo nei giorni di vigilia. Arrivava il torrone pieno di arachidi o di mandorle tostate, di Cologna Veneta, arrivava la mostarda di Vicenza, dentro a dei bei secchielli di legno, con dentro dei grossi pezzi di frutta candita ma così piccante da evitare di avvicinarla anche solo per provarci, poi arrivavano dei grandi pannetti di cioccolata sia con le nocciole, che bicolore che veniva tagliata a pezzi e venduta a peso, arrivavano i pandori di Verona e i panettoni di Milano, arrivavano tante scatole di biscotti di tutti i tipi che poi le donne compravano per fare dei dolci per le feste. Arrivavano le palline colorate, fragilissime e avvolte una per una da una carta velina, da mettere sull’albero di Natale, le statuine di gesso, del presepe, per coloro che volevano arricchire quello che avevano messo in soffitta, appena finite le feste a inizio anno e che adesso dovevano riportare giù per rifarlo in un’angolo della casa, magari in un sottoscala o vicino alla vetrinetta del tinello. Il negozio si riempiva di puzza “de freschin” quando si aprivano le scatole delle “renghe”, “aringhe”o dei “sardeoni”, “sardoni” affumicati e sotto sale e dal baccalà, mia zia apriva sempre con soddisfazione le grandi scatole di latta che contenevano il tonno sott’olio o le alici, “sardee” che dovevano servire a preparare i piatti “di magro”. Perché anche nell’Avvento, in cucina, valevano le stesse regole sull’astinenza come in Quaresima. Anche nell’osteria si doveva rispettare la tradizione e le indicazioni di astenersi dai “piatti grassi” e quindi si preparava il baccalà ma anche delle belle teglie di anguille, queste comprate da mio papà che erano ancora vive, portate a casa dal suo giro di rappresentante nelle terre del polesine. Qualcuno, troppo insistente, chiedeva di mangiare la solità carne di cavallo in umido, “carne in tocio” allora non si lesinavano le frasi di costrizione che il parroco aveva detto durante le prediche in chiesa e quindi cambiava richiesta e ordinava di mangiare il pesce al posto della carne, ho ancora davanti agli occhi certi piatti di seppie in umido che una sorella della zia sapeva fare con grande maestria, tutti accomunati dalla immancabile polenta tenera adagiata sui piatti e che vi correva attorno.
Ma in questi giorni e da diversi anni veniva a farci visita uno strano individuo, quello che mio padre o mio zio, adesso non ricordo chi ha cominciato a dargli quel nome, ha sempre battezzato col nome di “el diavolon”. Se quasi sicuramente agli adulti non era sfuggito il suo nome vero a noi bambini venne sempre tramandato questo appellattivo forse per intimorirci o forse per dare un alone di mistero a quest’uomo alto, magro e sempre avvolto dal suo tabarro. Inutile dire che quando arrivava era un fuggi fuggi generale da parte di tutti i piccoli presenti accompagnati dagli urletti squillanti delle femminucce, in effetti poteva succedere che faceva il suo ingresso proprio verso l’imbrunire e allora al vedere questa sagoma imponenete con il suo cappellaccio in testa, un certo terrore te lo faceva venire, anche se sembravi il più coraggioso del mondo, questo appuntamento avveniva ormai da diversi anni.
“El diavolon” era un uomo con una folta barba nera che di anno in anno diventava sempre più grigia, come ho detto di una buona statura e sempre vestito di nero, da capo a piedi, arrivava con la sua bicicletta anch’essa nera e tra il bastone del telatio ci metteva pure un grande ombrello, nero. Aveva una voce grave ma i suoi modi erano estremamente gentili e dopo aver chiesto permesso si sedeva in un tavolo dell’osteria e chiedeva di poter bere un buon bicchiere di vino rosso (volevo dire nero), non aveva mai fretta! Si fermava sempre un poco e anche se a malapena intratteneva dei discorsi rispondeva sempre con garbo ma in monosillabi perciò mia zia che lo aveva ormai preso in simpatia gli portava quello che al momento aveva sul fuoco e già pronto, un piatto di lasagne con il sugo e poi anche qualcosa di companatico e un bel pezzo di pane che a volte raddoppiava, poi lo riforniva di buon vino rosso se lo richiedeva e tra i vari sì e no consumava quel semplice pasto. Non si preoccupava se nell’osteria erano presenti delle altre persone perché sceglieva sempre l’angolo più lontano da tutti e anche il più nascosto. Ma una volta decisi di tenerlo d’occhio e l’unica cosa che adesso ricordo sono i suoi occhi che si illuminavano quando veniva riverito da tanta gentilezza e poi cosa ancor più stupefacente non pagava mai anzi riceveva sempre qualche soldo che mia zia gli faceva scivolare sulle sue grandi mani che poi molto velocemente intascava facendole passare attraverso il tabarro. Appena terminato di mangiare si alzava dalla sedia la riposizionava al suo posto senza far troppo rumore e dopo aver alzato il suo grande cappellaccio salutava tutti con un “buongiorno o buonasera”. Nessuno ha mai cercato di indagare sull’identità del “diavolon” se non che, uno di quei venditori di liquori, appena lo vide varcare la soglia dell’osteria gli si scagliò contro accusandolo di fare il “finto povero” e alzando il tono della voce cominciò a manifestare tutto il suo disappunto perché secondo lui i soldi ce li aveva, eccome. Tutti rimasero impietriti e se dal cielo spirava un’aria gelida almeno noi che eravamo presenti sapevamo che un simile comportamento manifestato da questo iracondo venditore era a dir poco intollerabile, perciò gli animi si scaldarono velocemente. E qualcuno cominciò a dire delle parole di troppo fino all’arrivo di un intermediadio che prese le difese dell’accusato “finto povero”. Alla fine la disputa riprese i toni delle persone educate e il venditore se ne andò senza neppure richiedere un ordine di fornitura, mentre “el diavolon”, rosso in viso, inforcò la sua bicicletta e sparì dietro alla prima curva. Passarono credo due anni prima di rivederlo comparire di nuovo e sempre vicino alle feste di Natale, aveva il tabarro tutto coperto di neve, che stava cadendo proprio in quel momento e dopo averla scrollata di dosso si sedette al solito tavolo, quasi nascosto e mia zia riprese a servirlo come se nulla fosse successo, io non ricordo se tra loro si rinnovò l’intesa degli anni addietro, non so neppure se si scambiarono delle parole diverse dai soliti monosillabi, quello che ricordo è la mia curiosità che voleva andare oltre a quella discussione di due anni prima e così facevo finta di ingraziarmelo per scoprire qualche confidenza. Ma nulla, se non che durante l’estate di quello stesso anno mio padre vide sul giornale una notizia che si riferiva a questa persona, lesse con attenzione quanto veniva riportato limitandosi a dire che c’era stato un incidente stradale che aveva coinvolto “el diavolon”, era stato ucciso da un camion in un paese dei colli euganei, luogo forse della sua residenza. Era morto quest’uomo che ci veniva a trovare pochi giorni prima di Natale o poco dopo capodanno, passava nella nostra osteria per mangiare un boccone e per ricevere una modesta elemosina che uno dei miei familiari gli metteva nella sua grande mano che poi lui con fare disinvolto metteva dentro al “tabaro“.

La foto di inizio è solo di ausilio perché non abbiamo trovato un uomo che indossa il tabarro e l’altra è della collezione di Paolo Nequinio.
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