Giorni di vendemmia

Nelle campagne del triveneto sono giorni di vendemmia, i grappoli vengono recisi dai tralci, si mettono nelle ceste per poi portarle nella “caneva“, qui vengono pigiati dentro al “tinasso“, nell’aria un intenso profumo di mosto, tra un via vai di uomini che le portano colme d’uva. Nei campi le donne cantano, i ragazzini chiassosi si divertono a giocare tra i filari di viti e il sole alto insiste a scaldare l’aria, le braccia e le gambe ancora nude vogliono essere accarezzate dagli ultimi tepori dell’estate che ormai si sta consumando pur allietata dalle note squillanti e dalle risate festose dei lavoratori a giornata convenuti a vendemmiare nella “cesura”.
Le viti stanno donando i loro frutti per essere tritati dalla macina che schizza gocce di mosto sulle braccia dei “canevari“, e qui possiamo ricordare l’altra pigiatura eseguita dalle donne di solito che arrotolavano le gonne sulla cintura e con violenza e seduzione pestavano con i piedi i grappoli d’uva distribuiti dentro all’enorme tino dove dal foro posto alla sua base faceva uscire il mosto appena prodotto. Con gioia e qualche discorso ambiguo si assaggiava la spuma che scendeva piano per capire la qualità di quel nettare appena prodotto.
Una vera festa anche se era una mescolanza di fatica e gioia, seduzione e racconti che richiamavano al mito di Dionisio e Bacco le due divinità, una greca e l’atra romana, legate al culto del frutto della vite. Le ceste di vimini piene di grappoli venivano sistemate sui carri che poi animali obbedienti trainavano nella corte vicino alla porta della “caneva” si svuotavano e poi gli armenti ripartivano per il nuovo carico di grappoli d’uve dal nome francese, Merlot, Cabernet, Pinot, Chardonnay, Sauvignon, oppure da uve di Raboso, Friularo (questi due vitigni sono più tardivi e si vendemmiano alla metà, fine di ottobre) Garganega, Tocai, Pinello, Refosco, Recioto (anche questo è tardivo e lo si vendemmia alla fine di settembre), Lugana, Amarone, Verduzzo o dalle radici istriane e dalmate come il Moscato, il Malvasia, o anche le uve renare come il Riesling, il Müller Thurgau, il Sylvaner. Quando i campi coltivati a vite erano tanti allora la vendemmia durava giorni con orari senza fine, fino a quando la luce del sole consentiva di svolgere il lavoro, le persone si riunivano sul “canton” della casa e ricevevano gli ordini della giornata senza che succedesse la solita confusione e forbici in mano si raggiungeva la parte di vigna da vendemmiare. Poi cominciava il vociare continuo delle donne che si raccontavano gli ultimi fatti avvenuti in casa o gli uomini che pur attenti al lavoro si trasmettevano racconti e avvenimenti successi di recente nei paesi di provenienza: se le donne le sentivi parlare di figli, nascite, malattie legate alla famiglia, gli uomini invece parlavano di morti, affari, fatti di cronaca, qualche volta anche di fatti legati alla politica, un lavoro metodico ma anche affascinante.
Mio padre quando decise di smettere di girare per il Polesine e i Colli Euganei come agente di vendita di prodotti alimentari, rilevò la conduzione del negozio di famiglia anch’esso di generi alimentari che si trovava in un paesino della Bassa Padovana, (Ronchi), e così divenne un “casoin“, lo gestì fino alla sua morte, tra l’altro prematura. In questo piccolo negozio sono capitati molti avvenimenti ma alcuni in particolare sono legati a questo racconto sulla vendemmia. Vicino al negozio c’era un podere molto grande quasi tutto coltivato a vite, i proprietari allora reclutavano molti studenti della vicina Università di Padova che per 14 o 15 giorni partivano dalle loro dimore usando la corriera di linea e provvisti di stivali e forbici si fermavano poco distante dai campi da vendemmiare. Nel momento della pausa pranzo venivano al negozio per comprare dei panini di prosciutto, sopressa, formaggio, pancetta o mortadella. Un giorno mio padre per accontentare questi giovanotti affamati decise di imbottire i panini con della verdura sotto aceto che vendeva a peso e così nelle pagnotte aggiunse alcuni pezzi di giardiniera, dei peperoni o delle cipolline. Tutti rimasero entusiasti della novità e nei giorni successivi questi giovani replicarono la richiesta, alcuni si fermavano a mangiare nei presso della bottega e così intrattenevano conversazione tra di loro e con mio papà. Arrivavano da ogni parte d’Italia e stavano studiando medicina, ingegneria, fisica e altre facoltà universitarie di Padova. Chissà se adesso quelli che al tempo erano dei promettenti dottori, appena leggeranno queste righe, seduti nei loro studi di lavoro si ricorderanno di quei panini ben farciti, da far invidia ai moderni negozi dai nomi americani e strani, (chi se li ricorda ancora questi momenti, avete realizzato delle foto io le sto raccogliendo, se è in evidenza anche l’entrata del negozio sarebbe molto bello).
Dopo questo si doveva aspettare la fermentazione del mosto e poi i travasi fino al giorno di san Martino, l’11 di novembre, perché da “san Martin ogni mosto deventa vin“, in tavola faceva la sua comparsa il “vin novo” il”Novello” discutendo del risultato della produzione. Se era buona il vino si portava subito al mercato mentre se era scadente iniziavano i guai perché se il vino non era commerciabile veniva bevuto dai componenti della famiglia, ma non fruttava un giusto guadagno.
Quando le donne vendemmiavano erano molto attente a certi grappoli ben maturi e li mettevano da parte perché servivano a preparare un tipico dessert tradizionale “i Sugoi“.
Ecco la ricetta: 1 kg. di farina fiore, 500 gr. di zucchero (la dose giusta deve seguire la qualità dell’uva che se è tanto dolce allora lo zucchero da usare deve diminuire), 10 kg. di uva nera, un poca di cannella.
Deraspare gli acini dai grappoli, schiacciarli dentro ad una pentola bella capiente, e farli bollire per 5/6 minuti, tenendo mescolato. Lasciare riposare il mosto per un giorno in una terrina, quindi schiacciare il più possibile le bucce per estrarne tutto il sugo. Togliere le bucce e mettere sul fuoco i 2/3 del sugo ottenuto, il 1/3 rimasto versarlo in una terrina dove si trova la farina e mescolare bene in modo da non formare i grumi, poi questo composto bisogna versarlo nel sugo che si sta stemperando sul fuoco dolce, mescolare continuamente e far bollire per circa 1 ora, aggiungere lo zucchero e la cannella e continuando a mescolare si fa bollire per altri 15 minuti. Versare nelle tazze questa crema d’uva e lasciar freddare. I palati raffinati possono spolverare i “sugoi” con del cacao, vanno bene anche da soli e se qualcuno ha dimenticato questo piatto consiglio di provarlo anche se non ha la vigna a casa sua, ne ricorderà il loro squisito sapore e potrò mostrare le mani e la lingua colorate di scuro, risultato dei tannini degli acini.
Consiglio a coloro che abitano in città e che sugli scafali del supermercato trovano solo l’uva da tavola molto costosa di accordarsi con un contadino della periferia della città che ha appena terminato la vendemmia, sui filari rimangono sempre dei riccioli di uve dimenticate per la fretta di finire, si raccolgono e si portano a casa per fare i sugoi. Può capitare che in una tenuta non si arrivi a raccogliere il quantitativo descritto perciò poi ci si regola con le dosi sopra descritte ma se individuate il campo giusto che fa per voi sicuramente riuscirete, come capita spesso a me, di portare a casa anche una quantità superiore dei 10 kg. descritti sulla ricetta. È una esperienza salutare da fare in compagnia, si ha l’occasione di immergersi nella natura anche partendo dalla proprio casa usando la bicicletta per raggiungere il campo del contadino. Buona passeggiata e buona scorpacciata di sugoi; cercate di non esagerare, che a volte possono essere indigesti.