I capati
I capati sono gli aderenti delle Confraternite che sono nate via via nei secoli, si chiamano così per la loro divisa composta da una tunica, di solito bianca, da una mantella colorata (la “capa”) per qualcuno rossa, dalla cintola e dal medaglione che distingueva un gruppo da un’altro.
Le Confraternite un gruppo di persone uniti tra di loro da ideali come il mettere varie cose in comune le idee, i beni materiali, delle proposte, alcuni propositi tutto regolamentato da uno statuto che a Venezia si chiamava “mariegola” (madre-regola), si può dire che sono esistite sin da quando gli uomini hanno cominciato a trovarsi a vivere insieme.
Le Confraternite che si sono formate nei secoli sono state centinaia c’era chi si occupava dei poveri, degli orfani, degli appestati, delle vedove che dovevano essere sostenute, si occupavano di bambine da istruire e da avviare ad una vita dignitosa, ma anche di bambini di strada spesso abbandonati e ignoranti, di ragazze madri o anche chi si occupava dei nobili decaduti in disgrazia per motivi economici, c’era anche questa Confraternita nella vita civile di Venezia.
Dopo che Napoleone Bonaparte conquistò l’Italia fu approvato un nuovo ordine civile e così tutte le aggregazioni di stampo religioso compresi tutti gli ordini monastici vennero soppressi e confiscati tutti i loro beni, solo poche resistettero a tale impeto, si salvò anche la Confraternita del S.S. Sacramento, presente ancora oggi in alcuni paesi di campagna, dove i confratelli presiedono e assistono alle funzioni religiose in special modo a quelle della Quaresima e poi della Settimana Santa, inoltre la loro presenza non doveva mancare nelle processioni liturgiche come quella del Corpus Domini e nel periodo natalizio.
Ecco elencati alcuni compiti che dovevano svolgere in questi periodi liturgici così significativi per la comunità: nella Settimana Santa ma ancor prima durante tutta la Quaresima la loro presenza doveva essere di aiuto al parroco e al sagrestano durante la “questua” una antica raccolta fondi per sovvertire alle necessità del parroco del suo aiutante ma anche dei numerosi indigenti del paese. Era purtroppo naturale raccogliere più beni materiali piuttosto che denaro viste le condizioni di vita delle persone dei paesi, così in alcune ceste si depositavano uova e pollame, nei sacchi di iuta del frumento o del granoturco, come pure del fieno per alimentare il cavallo che il parroco attaccava al calesse per i suoi celeri o lunghi spostamenti. Inoltre dovevano presiedere alle “40 ore” un periodo penitenziale della Settimana Santa, che terminava con una processione per le vie del paese anticipo della processione del Venerdì Santo. I Capati erano molto impegnati nel Triduo Pasquale, Giovedì, Venerdì e Sabato Santo sia durante le funzioni che nelle varie loro preparazioni, la pulizia dei paramenti sacri, il baldacchino, i ceri, le stole, la croce, le vestizioni degli altari che venivano coperti da stoffe viola durante il passaggio dalla morte alla vita di Gesù, poi chi poteva doveva cantare nel coro ed anche fare da supporto ai “zaghi” i ragazzi vestiti da chierici.
Per i Confratelli il Triduo Pasquale era una importante esperienza da vivere con diligenza sia durante le lunghe cerimonie religiose sia durante le processioni che partivano dalla chiesa semi buia e si incamminavano per le vie del paese illuminate dai lumini accesi posti sul ciglio della strada. All’inizio del corteo un confratello teneva la croce a stelo con a fianco due chierici “zaghi”, con in mano le candele accese, dietro di loro la schiera degli uomini che si muovevano a passo lento sulla ghiaia della stradina del paese schiacciata dagli zoccoli di legno, nel mezzo altri quattro confratelli con i ceri e posti ai lati del baldacchino sostenuto da altri quattro dove c’era il parroco con la reliquia in mano assieme ad altri due confratelli, uno a destra con il turibolo e l’altro a sinistra con la navicella di incenso, dietro al baldacchino le giovinette aspiranti o della prima comunione e poi le donne con i bambini piccoli, si camminava lentamente cantando litanie e preghiere in latino, ogni tanto una lettura a voce alta ripetuta a memoria o leggendo un libretto ormai sgualcito in mano al lettore. Si passava per la piazza del paese sfiorando la porta dell’osteria quasi sempre al buio per non far identificare gli “sconsacrati” presenti.
La processione si muoveva lentamente nel buio della notte e quando incontrava un imprevisto che la fermava per qualche minuto generava imbarazzo, così interveniva il parroco che interrotta la preghiera del salmo diceva sottovoce al capato “vanti col Cristo che ea procession se ingruma”, “non fermatevi altrimenti tiriamo a tardi”, un modo di dire spesso usato quando si fanno dei lavori a catena (mietitura, fienagione, manovalanza nella costruzione dei fabbricati, ecc.) dove un qualsiasi ritardo causato da qualche intoppo può fermare anche il lavoro degli altri.
Rientrati in chiesa la mantellina rossa dei capati spiccava nella penombra e la si vedeva curvarsi nel raccoglimento in preghiera, e taciuto ogni rumore proseguivano l’adorazione fino all’alba del “Sabato Santo”, il giorno della “grande festa”, la festa del giorno di Pasqua, la festa della risurrezione, della “rinascita”, quello che ci mostra anche la natura quando si risveglia ad ogni primavera perché qui da noi la festa di Pasqua si festeggia sempre a primavera.
Il tempo di Pasqua poi proseguiva e arrivati a Maggio, la metà circa (la data cade 40 giorni dopo quella di Pasqua), le Rogazioni nella campagna circostante nella festa religiosa della Ascensione del Signore al cielo e anche in questa circostanza i Capati erano sempre in prima fila, infine il periodo pasquale terminava con il Corpus Domini e con la relativa processione dei petali di fiore sparsi per le vie del paese.
Durante la Quaresima si doveva mangiare di “magro” e al Venerdì Santo si doveva fare sia digiuno che astinenza dalle carni e così il pesce trionfava nelle cucine: le sardine pulite, infarinate e poi fritte in abbondate olio, le alici o i totani, le anguelle e i gamberoni, le seppioline e i calamarie e il bacalà, che poteva trionfare nelle ricette più creative possibili. I primi di solito erano gli spaghetti con i “peoci”, le cozze, o il risotto di seppia, quello nero e i bigoli in salsa. Qualche famiglia preferiva i tranci di tonno sott’olio o i filetti di sgombro che comprava al negozio del “casoin”, dal negoziante che li prendeva dai barattoli di latta posati sopra al bancone in bella vista, usava una grande forchetta e li metteva sopra a dei fogli di carta e li vendeva a peso.
Piatti accompagnati sempre dalle primizie, l’insalata novella colta nell’orto esposto al sole, il vino bianco nuovo, della vendemmia recente, versato dentro ai fiaschi ricoperti di paglia per proteggerlo dalla luce del sole e per conservarlo fresco preso dalla damigiana che si trovava nella “caneva”, primizie erano pure i piatti di pesce appena pescato nei fossi del confine della chiusura, tinche, lucci carpe, anguille e altro pesce di valle, conditi da tanta polenta abbrustolita o appena cotta se poi mancavano pure quelli ci si consolava con quel poco che c’era a disposizione ma certi che i sacrifici sarebbero finiti a Pasqua la “festa granda”.
Ecco alcune ricette di questo periodo quaresimale:
pesce fritto: vari tipi di pesce di taglia piccola sia di fiume, già sopra accennati, che di mare come le sardine, i gamberetti, i totani, le anguelle, le seppioline, sogliole di piccola taglia, calamaretti, alici e anche dei pezzi di “cagnoletto” palombo, olio di semi di girasole per friggere, farina fiore, 3 limoni, sale.
Lavare bene e pulire i vari tipi di pesce, eviscerando quelli che lo necessitano tipo le sardine, asciugarli, metterli a macerare su un piatto dove abbiamo schiacciato il limone e poi si passano sulla farina per bene su tutti i lati. Intanto in una casseruola abbiamo messo dell’abbondante olio di semi e quando è caldo facciamo scivolare dentro il pesce poco per volta, lasciamo cuocere il pesce finché acquista un bel colore dorato e a seconda dei tipi se sentiamo che è cotto al punto giusto, con la scolarola lo tiriamo su dall’olio e lo mettiamo a gocciolare sopra a dei fogli di carta assorbente per togliere l’olio in eccesso, salare e se preferiamo prima di servire gli passiamo alcune gocce di limone sopra, servire con polenta in fetta o al cucchiaio.
Risotto al nero di seppia: 500 gr di riso vialone nano, 600 gr. di seppioline, 1 cipolla bianca, 1 spicchio d’aglio, una manciata di prezzemolo tritato, 1 bicchiere di vino bianco secco, 1 litro di brodo vegetale, 1 bicchiere di olio extravergine di oliva, sale e pepe.
Preparazione: per evitare guai con i sacchetti dell’inchiostro fatevi pulire le seppioline dal pescivendolo che così ve le consegna già pronte, arrivati a casa lavatele bene in acqua corrente, poi si tagliano a striscioline non troppo grandi, preparate un soffritto di olio, cipolla e aglio (che poi si toglie quando è dorato) e rosolatevi le seppie, cuocetele per almeno 10 minuti, bagnatele con il vino e continuare la cottura lenta per altri 20 minuti, rompete le sacche dell’inchiostro e aggiungetele alle seppie. Poi mettete il riso, tostatelo per alcuni minuti e bagnatele con dei mestoli di brodo, rimestando di continuo. Aggiungete il brodo fino alla cottura completa del riso, cospargete di prezzemolo tritato, correggete con il sale e il pepe, un filo di olio crudo e grana gratuggiato, servite il risotto bello caldo.
Pescegatto arrosto: scrivo questa ricetta per ricordare che alcuni decenni fa sui nostri fossi si trovava il pescegatto, un pesce nero con dei bei baffetti che adesso è scomparso, la causa è sicuramente da attribuire al forte inquinamento dei corsi d’acqua ma anche alla scarsa competenza che hanno dimostrato certi addetti alla manutenzione dei fossi che negli anni si sono divertiti a togliere la fanghiglia dagli alvei nella stagione della semina delle uova e così sia pescegatto, tinche, rane e tutti gli altri pesci che prima erano presenti dappertutto adesso sono proprio spariti, li troviamo di rado in qualche lista di piatti proposta da qualche trattoria.
Ingredienti: dei grandi pescigatto da darne uno per persona, olio extravergine di oliva, 1 spicchio d’aglio, una graticola, del limone a fette, sale.
Preparazione: pulire i pesci incidendo per lungo la pancia, togliere le interiora, prendere un rametto di rosmarino e ungerli per bene con l’olio, l’aglio pestato, un pizzico di sale, sia dentro che fuori. Appoggiare i pesci su una graticola di quelle che si chiudono molto utile per il pesce che così non si rompe e posarla sulle braci che avevamo preparato per tempo, tenendola vicina ma non a contatto per non arrostire troppo la pelle del pesce, ogni tanto cambiare le braci e girare la graticola fino alla completa cottura dei pesci. Apritela e appoggiate il pesce sull’olio avanzato disponendovi attorno delle fette di limone e per chi vuole lo può spremere sopra o in alternativa un leggero trito di prezzemolo.
E per accompagnare questi piatti di pesce ci vuole del buon vino bianco fresco e ne elenco alcuni: Pinot grigio, Garganega, Lugana, Pinello, Vespaiolo, Custoza, Bianco di Bagnoli, Verduzzo, tralascio il Tai e ricordo il re dei bianchi il Prosecco.
Oggigiorno le Confraternite esistono in particolar modo per salvaguardare un prodotto tipico di un territorio e sono state citate quelle per far promuovere il baccalà e tanti altri prodotti come il Torcolato di Breganze.