Pages Navigation Menu

foto, lettere, diari, poesie, racconti, ricette

I giorni del maiale

I giorni del maiale

Dopo la sua fuga per i campi assieme a tutti i suoi cuccioli, la scrofa aveva fatto ritorno a casa e sappiamo anche con quale intercessione tutto era andato a buon fine. Naturale che alcuni dei maialini erano andati ad occupare le stalle preparate per loro, “staete del porseo”, nelle corti dei dintorni, venduti ovviamnte. La scrofa e uno dei suoi piccoli erano rimasti nella famiglia dove avvenne il fatto miracoloso del ritrovamento e passati i giorni dell’ingrasso, quello che era un maialino adesso aveva raggiunto la bella stazza di circa 150 chili e quindi era pronto per essere ucciso e macellato per fare degli ottimi salami, pancette, sopresse, cotecchini.

Sulla vita e sul comportamento del maiale, “porseo“, si conoscono molte cose come, ad esempio, la funzione che fa la peluria che ricopre la sua pelle, le setole, lo rinfrescano quando fa tanto caldo d’estate, anche il fango fa la stessa funzione quando c’è una calura insistente, il maiale vi ruzzola dentro facendolo diventare una specie di abito estivo, si distende vicino alla pozza dove è posto l’abbeveratoio, dove l’acqua ha creato uno spesso pantano: “te si onto come un porseo” era l’esclamazione più frequente che ci diceva la nostra mamma quando al rientro in casa ci ispezionava e indovinava i luoghi dei nostri giochi. Il “porseo” è ovviamente il maiale e “l’onto” è lo sporco di fango che si attaccava sui vestiti se poco prima avevamo scelto un fosso vicino a casa per fare le nostre battaglie, magari con le “cerbottane” sparandoci contro dei proiettili “piroe”, realizzati arrotolando dei foglietti di carta strappata da qualche rivista e poi messi dentro a delle grosse cannucce, soffiandoci dentro si facevano partire questi piccoli coni di carta e in direzione dell’avversario da colpire.
Un giorno di dicembre si giocava sul fosso che si trovava sul confine con la nostra propietà e quella di Cesare, Santa e Bepi (Giuseppe), avevamo da poco iniziato una buona battaglia ma abbiamo sentito delle grida lancinanti che arrivavano dalla stalla del maiale e subito siamo scappati a nasconderci sotto al carro messo al riparo nel barco della casa, ci batteva forte il cuore perché le grida si avvicinavano sempre di più, quel tanto che abbiamo chiuso gli occhi e tappato le orecchie. Nella corte era tutto un via vai continuo di uomini, di donne che portavano dei secchi di ferro pieni di acqua bollente che fumavano  come camini, qualcuno gridava forse impaurito anche lui e qualche altro dava ordini, seguiti da qualche imprecazione. Con fatica tiravano una cordicella che all’altro capo era legato il maiale che non voleva saperne di seguirli, lo tirarono dentro ad una specie di barca squadrata “el veturo”, subito venne immobilizzato e poco dopo più nulla. Peccato che noi anche se eravamo nascosti ci trovavamo proprio vicino al secchio che piano piano si riempiva di sangue spillato dal collo del maiale colpito da un fendente inferto dal “massin, in altre parti del Veneto si chiama anche con altri nomi, che con precisione gli aveva reciso la vena giusta vicino alla gola. Siamo stati a nostra insaputa i testimoni dell’uccisione del maiale, ma non vedevamo l’ora di fuggire il più lontano possibile impauriti da quella scena che ci capitava di vivere per la prima volta. Abbiamo aspettato ancora un poco e poi quando cominciarono ad arrivare le donne con i secchi pieni di acqua bollente per lavare il maiale che si trovava adagiato nel “veturo” allora ci siamo fatti coraggio e siamo usciti da sotto al carro. Erano così occupati che nessuno fece caso alla nostra fuga, siamo scappati in mezzo alla vigna a smaltire la paura. Questi alcuni ricordi un poco offuscati, poi col passare degli anni questo avvenimento divenne un fatto consueto solo che per mia bontà evitavo ogni volta di assistere alla prima parte, quando l’animale veniva preso dalla sua stalla e trascinato dentro al contenitore che sembrava una barca (sul perché dovevo assistere alla macellazione del maiale lo racconterò in un’altro articolo).
Intanto nella corte di Cesare, Santa e Bepi si radunarono altre persone perché il maiale ormai morto doveva essere appeso ad una trave del portico per essere sezionato in due parti, non prima di aver ben pelato la sua pelle dalle setole che venivano raccolte per “el setoearo”, il fabbricante di pennelli di setola, ed eliminate le poche parti inutili, la coda per esempio, il maiale veniva tagliato e portato nella caneva dove sopra al basamento di pietra, adatto a tutti i lavori di macellazione (dalle galline, oche, conigli) era già pronta una tavola di legno, ben lavata, con i bordi rialzati e fatta in un modo tale che un lato, più corto, finiva a triangolo dove esisteva una porticina (spaccatura del bordo) “ea miolara”, da dove colava il sangue che via via usciva dalla carne tagliata, il quale veniva raccolto in un capiente catino perché poi con quel sangue si faceva un alimento tipico di questo avvenimento, “ea dolsa”, il sangue appena rappreso si faceva bollire fintanto acquistava una certa consistenza e veniva mangiato praticamente subito accompagnato da delle buone fette di polenta brustolita nel focolare, sempre acceso, visto il bisogno di quello che si stava facendo. Nel trattempo si erano già tolte le interiora, il cuore, il fegato, la bile e tutte quelle altre parti che potevano compromettere il prodotto finale, i salami, le sopresse, le pancette.

La carne rimaneva nella caneva per un giorno o addirittura due e poi dal fondo della strada si vedeva arrivare il vero artista di questa particolare circostanza “el saeadaro”, il norcino, parola che per i veneti non dice nulla visto che conta il risultato cioè “el saeadaro fa i saeadi e anche le soprese”.


Lui sapeva mescolare le varie carni che passavano di mano in mano sopra a questa tavola di legno, lui sapeva metterci la giusta quantità di sale grosso e anche di quello fino, di pepe, di cannella e di chiodi di garofano e a piacere pure l’aglio, lui sapeva come preparare le budella che ispezionava accuratamente, le annusava una per una perché non dovevano trattenere dei cattivi odori, come non dovevano profumare troppo di sapone, quello usato per lavarle, si informava sempre della loro provenienza perché se arrivavano dal suo fornitore di fiducia allora si sentiva tranquillo altrimenti doveva scegliere se fare più cotecchini che salami (questa scelta la faceva quando certe budella erano molto fragili e allora capitava che col tempo o addirittura in fase di lavorazione si rompevano con facilità). Ed infine era sempre lui, quest’uomo che l’esperienza aveva affinato, a stabilire il processo di lavorazione della carne: la macina con il tritacarne e l’insaccatura con il vermicello, entrambe erano attaccate al bordo della tavola di legno al lato opposto di quella porticina, “lo scolo”, descritta poco prima. Erano tutti uomini quelli che si ritrovavano ad eseguire questo lavoro assieme al “saeadaro” e infatti quando si cominciava ad insaccare la carne che lentamente passava attraverso dei grossi imbuti “impirioti” per finire dentro al budello steso, allora spesso si parlava di sesso perché era facile abbinarlo per metafora l’aumento di volume del budello quando lo si riempiva di carne con l’aumento del volume del pene quando viene stimolato e spesso si rideva al raccontare certe avventure galanti avute con qualche ragazza, a volte però volavano parolacce pesanti ed ecco che se qualcuno non interveniva in tempo si potevano scatenare dei diverbi pericolosi.
Le donne erano attente al fuoco e ogni tanto facevano capolino nella caneva per prendere le ossa scarnificate e qualche cotica avanzata per metterle nella griglia assieme alle fette di polenta che lentamente si cucinavano, intanto le stanze si riempivano di fumo e odore di grasso bruciato, poi si riaffacciavano e se capivano che era arrivata l’ora di una sosta offrivano le costicine con la polenta abbrustolita, qualche figlia portava la caraffa di acqua e il bottiglione di vino appena spillato, vino rosso corposo e magari della vendemmia dell’anno. Era sempre e comunque una festa a meno che qualche malizioso sempre veloce nell’offendere i più deboli prendeva a riferimento la cotica riscaldata che diventava untuosa e molliccia per burlare il carattere o il comportamento di qualche persona più fragile: “tesi na sisoea”, la cotica diventava la cicciola quando veniva riscaldata e quindi l’allusione alla debolezza di carattere era facile abbinamento, lo era anche il flacido di muscolatura, l’insicuro per natura, tutti erano “sisoe”, anche chi non aveva coraggio o chi si dimostrava timido nei confronti delle ragazze o all’arrivo di un dolore corporale “dai tirate su e no sta fare ea sisoea”.
La pertica intanto si riempiva di coppie di salami o sopresse e alla fine si facevano i cotecchini, con la carne avanzata che non bastava a riempire un budello intero e poi con la cotica “coega” del maiale, si macinava più volte per renderla fine altrimenti poi quando venivano cucinati aveva dei pezzi più grossi e duri al loro interno, poi quando il lavoro era quasi terminato il “saeadaro” prendeva un piccolo attrezzo tutto pieno di aculei “el spunciaroeo” e con grande maestria punzecchiava i salami appesi alla pertica e tutti si portavano le mani tra le gambe e si toccavano l’organo riproduttivo quasi a scongiurare la rottura del budello, gesto scaramatico e propiziatorio per aiutare il salame a scaricare il grasso in eccesso in modo da farlo rassodare e diventare più appettitoso.
A lavoro ultimato intervenivano le donne che dovevano pulire ben bene tutti gli attrezzi che poi venivano trasportati in un’altra corte dove un’altra famiglia li stava aspettando per iniziare anche loro le operazioni di insaccatura dei salami. Si concludeva con la cena tutti assieme chiamata anche la “sena dei saeadi” cena dei salami, dove si consumavano le costicine arrostite con la polenta ma anche un buon piatto di bigoli appena fatti e arrichiti con del sugo realizzato con la carne macinata del maiale e poi vino a volontà per tutti compresi i più piccoli, alla fine l’immancabile dolce di pasta lievitata “la fugassa” da intingere sempre nel vino fin quasi alla ubriacatura. Ai canti e ai discorsi di tutta quella festa mancava il norcino che aveva dovuto trasferirsi presso l’altra famiglia, ma quasi sempre faceva la sua visita il prete che come nel periodo di Quaresima passava dalle famiglie a raccogliere la “questua”, si informava delle condizioni della famiglia, invitava alla messa di mezzanotte, la vigilia di Natale, sollecitava quelli che erano i cantori ad organizzarsi per i canti da fare in chiesa, stimolava alla confessione e poi ripartiva con una coppia di salami nella borsa ma se trovava della generosità anche due, tanto si sapeva che poi uno di quei salami lo lasciava alla famiglia vicina perché da loro la povertà non permetteva neppure di “copare el porseo” (uccidere il maiale).
Intanto si avvicinava il Natale altra “festa granda” tutta da raccontare.

Le foto sono della collezione di Paolo Nequinio.
468 ad