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Il baccalà mantecato alla veneziana

Il baccalà mantecato alla veneziana

Il baccalà è un pesce che viene dai mari del nord Europa, il suo vero nome è merluzzo ed è conosciuto e usato per fare dei buoni piatti in molte cucine, viene pescato e poi preparato sia per essere consumato fresco, per essere conservato lo mettono sotto sale, oppure essiccato ai venti freddi del nord. Ma come sia giunto a Venezia, la seconda metà del Quattrocento, vorrei farlo aiutato da una commedia teatrale che ho inventata prendendo spunto dalla lettura di un paio di libri dove si racconta la storia che è poi conservata negli archivi di stato della Repubblica Serenissima e dopo averne interpretato per un poco la mentalità veneziana

l’ingresso di Palazzo Ducale “Porta della Carta” a fianco della Basilica di san marco

Il luogo è la sala del Senato di Palazzo Ducale al cospetto dei Magistrati della Serenissima Repubblica, tra i presenti c’è il doge Francesco Foscari e tutto il Consiglio, al centro sta per parlare il capitano da mar Piero Querini, gesticola ed è molto impacciato, deve leggere la sua relazione trascritta dal nostromo Cristoforo Fioravante e riveduta da Nicolò di Michiel suoi luogotenenti e devono rendere conto del loro viaggio, ricco di imprevisti tragici ed anche affascinanti effettuato da Candia (l’attuale Creta), fino alle lontane e sconosciute isole Lofoten in Norvegia, nel terzo decennio del 1400.

Uno dei componenti il Senato della Repubblica interroga il capitano Pietro o Piero Querini (sarebbe molto interessante poter trascrivere questo dialogo nella parlata veneta, ricca di termini raffinati, comune ai senatori, un politichese veneto, per chiarezza di lettura lo facciamo nella lingua corrente, in italiano):

Membro del Consiglio: “Ci dica Capitano, cosa ha da riferire del suo viaggio che lo ha riportato a Palazzo dopo questo lungo periodo di assenza, spero sia da lei definito un gradito ritorno a Venezia”.

Piero Querini: “Il giorno di san Marco, 25 aprile dell’altr’anno (1431) siamo partiti da Candia (attuale Creta) con una “cocca” (una nave di media stazza a due alberi) a bordo c’erano in tutto 64 marinai e un carico di 800 barili di vino Malvasia oltre ad altri prodotti da vendere ai mercati delle Fiandre e dell’Alemagna del nord. Dopo aver superato lo stretto di Gibilterra abbiamo fatto scalo a Cadice, poi siamo ripartiti ma giunti in prossimità del porto di Anversa il 17 dicembre una forte tempesta ci investì e ci obbligò a modificare la rotta ma era così forte da rompere gli alberi della nave ed anche il timone, rimasti così in balia della corrente siamo stati costretti ad abbandonare la nave e salire su due piccole galere a remi e sospinti dalla corrente abbiamo vagato per 21 giorni senza sapere dove ci stava trascinando”.

Senatore: “Siete stati trascinati verso quale direzione capitano?”

Piero Querini: “Dopo esserci divisi in due equipaggi, 47 marinai con me e 21 sull’altra che poi abbiamo persi i contatti, siamo stati in balia del mare senza più capire la nostra futura sorte. Il bilancio alla fine sarebbe stato assai tragico, degli altri non si seppe più nulla mentre noi siamo stati sbattuti sugli scogli di un’isola, solo in 11 ci siamo salvati e saremo morti anche noi se non ci fossero stati dei testimoni che avevano visto il nostro dramma. Infatti degli abitanti prima assistettero alla nostra disgrazia e subito dopo ci soccorsero, ci medicarono le ferite, ci portarono nelle loro case edificate su di un promontorio vicino alla costa, ci diedero ospitalità fino alla nostra totale guarigione che ci avrebbe permesso di ripartire. Abbiamo vissuto per molti mesi con loro senza essere trattati da estranei, abbiamo cercato di conoscerli e di capirci attraverso i loro comportamenti, le loro abitudini, i loro racconti, in una lingua che non conoscevamo ma che suonava come quella di altri marinai giunti a Venezia dalle lontane terre vichinghe, del nord Europa”.

Continua il racconto il nostromo Cristoforo Fioravante: “Mi ricordo che ero riverso sulla costa e due donne mi si accostarono e mi sollevarono, parlavano una lingua che non conoscevo ma intuii che commentavano sul mio stato di salute, vicino a me altri marinai giacevano senza vita. Così mi caricarono su un carretto di legno e mi portarono dentro ad una delle loro case che ricordo abbastanza strane, poi persi i sensi. Dopo molto tempo, forse due giorni, mi sono risvegliato sdraiato in un giaciglio di pelli, ero completamente nudo e pieno di lividi doloranti vicino a me c’era una donna che li ungeva di balsamo per alleviare il dolore, lo faceva con delicatezza per non farmi più male e ne rimasi sorpreso perché mi ritenevo uno sconosciuto così come gli altri della spedizione. Dopo alcuni giorni queste cure così particolari riuscirono a rimettermi in piedi e così con il capitano abbiamo iniziato ad integrarci col loro mondo per conoscerci di più e piano piano ci fecero capire che eravamo naufragati in un’isola dell’arcipelago delle isole Lofoten e precisamente sull’isola di Røst, terra vichinga di Norvegia”.

Magistrato: “Messer Cristoforo lei ci vuole dire che non vi hanno torturato, imprigionato, condannato ma anzi vi hanno curato e risollevato?”

Cristoforo e Piero: “Sì Messere hanno dimostrata vera carità cristiana verso di noi, infatti il giorno di Pasqua molti di loro si sono recati a messa, ufficiata in una cappella e molti hanno partecipato alla santa comunione dandoci molta consolazione perché anche la loro cultura aveva un grande rispetto per la vita delle persone e così in questo momento possiamo raccontare alla vostra presenza della nostra vicenda”.

Magistrato: “Sì, sì vedo, vedo, ma continuate il racconto, la prego”.

Piero: “Questo popolo vive quasi esclusivamente di pesca perché è una terra fredda e il ghiaccio la copre per molti mesi in un anno e non può dare nessun frutto, inoltre per tre mesi è sempre giorno mentre per altri sei mesi è sempre notte. I pesci che riescono a pescare sono di due tipi i merluzzi e le platesse, salpano di buon mattino con le loro imbarcazioni e poi prendono il largo e ritornano a riva solo quando le hanno riempite, poi li puliscono e li mettono ad essiccare al vento gelido fino a farli diventare duri come il legno, stokkfish, pesce bastone, nell’etimologia nordica.

Prego Messeri guardate questo pesce che per mangiarlo bisogna batterlo sopra ad una pietra e come fanno in quelle isole lo riducono in tanti nervi e poi lo cucinano in grandi pentole non prima di averlo ammorbidito con del burro e acqua. Dopo centouno giorni gli abitanti dell’isola ci caricarono sulle loro navi e ci accompagnarono al porto di Anversa perché dovevano barattare il loro pesce con altri generi necessari alla loro vita, e dopo essere sbarcati, quando si rese opportuno ci siamo uniti ad altre comitive di commercianti e percorrendo i loro viaggi e le merci che avevano con sé siamo potuti rientrare a Venezia”

I Magistrati si passarono di mano in mano un pezzo di stoccafisso, lo annusarono giudicandolo maleodorante e ironizzarono su quell’odore che non aveva nulla di invitante tutt’altro, uno dei Senatori allora chiese una ulteriore spiegazione: “Capitano Querini, ma dove si trova questa isola che vi ha accolto e rifocillato così bene?”

“In culo mundi” fu la risposta, “In culo al mondo” qualcuno dei Magistrati con il sorriso sulle labbra disse: “Ecco appunto!”.

Stroncato dal Consiglio il capitano Querini non si perse d’animo e tentò di commercializzare lo “stoccafisso” nella Venezia di quel tempo ma con scarsi risultati perché fu proprio quell’odore a non convincere i cuochi della città che amavano degli ingredienti più delicati e poi Venezia completamente circondata dal mare offriva molte varietà di pesce ed in abbondanza così pochissimi lo vollero provare, e quel pesce secco che arrivava da “un luogo lontano”, tradotto “in cao al mondo”, “in capo al mondo”, non era ancora trascorso il tempo del suo ingresso nella cucina veneziana e così Querini profondamente deluso ripartì per quelle isole così accoglienti, e da quel mondo non fece più ritorno.

Passarono alcuni decenni e nel porto di Venezia iniziarono ad arrivare le navi provenienti dal Portogallo e scaricavano lo stesso merluzzo dei mari del nord, conservato sotto sale che chiamavano “baccalao”, tra le voci del mercato circolava ancora la storia del capitano Querini e descrivevano il merluzzo essiccato all’aria fredda delle isole norvegesi, come veniva preparato in cucina e la sua prelibatezza, così lo stoccafisso per semplicità venne chiamato anche lui baccala, anzi bacalà senza consonante e con l’accento.

Trascorso altro tempo fino al 4 dicembre 1563 (più di un secolo dopo la straordinaria avventura del capitano Querini), ci troviamo nel duomo di Trento e siamo nei giorni conclusivi del Concilio, siamo alle battute finali prima di trascrivere la Bolla sulla quale vengono sottoscritti dai Cardinali officianti un bel elenco di diversi cibi ritenuti proibiti e di fianco quelli consentiti da mangiare nei giorni di penitenza, “solo” 180 all’anno (Quaresima e Avvento i periodi più lunghi). Tutte le carni assieme a tutti i grassi diventarono proibiti, mentre tutti quelli “magri” rientravano in quelli consentiti, il pesce faceva parte di questa categoria cioè di quei cibi buoni che in qualche maniera portavano benefici nel corpo delle persone, tra questi il “bacalà” tra l’altro inserito per ultimo per merito dall’arcivescovo di Uppsala Olaf Mansoon conosciuto anche col nome di Olao Magno che ne fu un valido sostenitore di questa pietanza. Lui si era ricordato del capitano Querini di come aveva scoperto il merluzzo messo ad essiccare al sole e al vento del nord, del suo buon gusto quando viene cucinato per bene e così fu subito inserito nella lista dei piatti Quaresimali e di Avvento e poi essendone un grande estimatore e un buongustaio lo trascrisse addirittura in un’apposita bolla.

Appena il Documento conclusivo del Concilio di Trento fu adottato da tutti i Cattolici anche i più indecisi iniziarono a cucinare e a gustare lo stoccafisso o bacalà come venne chiamato in seguito, specialmente in Quaresima, lo preparavano come era stato trascritto nel documento dell’Arcivescovo Olao Magno, riportandolo dalla ricetta promossa dal capitano Querini un secolo prima e così molti cuochi che passarono per Venezia pur modificandola secondo la propria fantasia giunsero alla ricetta qui descritta che non si discosta molto da quella originale e diventando la ricetta ufficiale della Serenissima Confraternita del Bacalà Mantecato, che ha sede a Venezia.

Il bacalà Mantecato alla veneziana è la ricetta di un bacalà che ha fatto la storia della Serenissima Confraternita, delicato nel gusto e raffinato nel sapore.

Serve uno stoccafisso, il conosciuto baccalà (scritto con le due consonanti), lo si mette in ammollo per 24 ore sotto l’acqua corrente o in alternativa lo si fa ammollare su un tegame ma bisogna cambiare l’acqua ogni 3 ore, è molto importante fare questa operazione per ottenere un piatto dal gusto delicato.

Gli ingredienti sono: 800 gr. di baccalà ammollato, 200 ml. di latte (al posto del burro d’inizio), 200 ml. di olio extravergine di oliva, pepe quanto basta, un ciuffo di prezzemolo, sale quanto basta, uno spicchio d’aglio.

Il baccalà ammollato e tagliato a pezzetti viene messo in un tegame coperto di acqua fredda, si aggiunge 150 ml di latte, salare leggermente e portare a bollore schiumando ogni tanto per 20 minuti, serve più tempo se richiesto (ogni baccalà ha consistenza diversa) fino a farlo diventare tenero, aggiungere alla fine l’altro latte rimasto e continuare la cottura per altri 10 minuti. Scolatelo e pulitelo privandolo della pelle e delle lische, riducetelo a pezzettini e mettetelo in una ciotola, quindi aiutati da un cucchiaio di legno si deve mescolare energicamente aggiungendo l’olio extravergine d’oliva a filo fino all’esaurimento dell’olio e alla trasformazione del baccalà in una crema compatta e omogenea di aspetto chiaro e lucido. Aggiustare di sale e pepe, aggiungere un trito di prezzemolo e lo spicchio d’aglio, continuare a mescolare e poi lasciare riposare per circa 30 minuti prima di servire.

Franco segue la cottura sulle braci delle fette di polenta bianca

A parte preparare la polenta con farina biancoperla: 4 litri di acqua salata portata a bollore si fa cadere 300 gr di farina da polenta bianca, mescolare ogni tanto con il baco per non farla attaccare al fondo e per 30 minuti almeno, dopo 15 minuti di cottura se lo si desidera aggiungere un filo di olio extravergine di oliva a fine cottura versarla sopra ad un tagliere e farla raffreddare poi va tagliata a fette da mettere in forno ad abbrustolire, quando è ben cotta con la sua crosticina, sistemarla sopra un piatto e aggiungere delle belle noci di baccalà mantecato. Non potete fare la polenta allora prendere del pane morbido tagliato a fette passatelo in forno e appena abbrustolito mettere le fette su un vassoio e coprite la superficie con il baccalà oppure mettete una ciotola di baccalà a fianco del pane, gustatelo sicuramente scoprirete un contrasto di sapori unico e incredibile.

Si accompagna bene con del vino bianco, fermo o frizzante possibilmente aromatico come il Vespaiolo di Breganze o il Pinot grigio, oppure il Garganega, non rifiuta il Prosecco o il Pinello e il Serprino dei Colli Euganei. Da provare con i nuovi vini Rosè più moderni uno su tutti il Bardolino Rosè.

Le fotografie sono della collezione di Paolo Nequinio; l’immagine della testata è tratta dal libro “Il Magnifico Principe di Venezia”.

L’immagine di inizio articolo è tratta dal libro: Il Magnifico Principe di Venezia, Norme e Tradizioni legate al Dogado, di Michela Knezevich, 1986 Edizioni Storti, Venezia.

Gli spunti per la commedia sono tratti dal libro “Origine e storia della Cucina Veneziana” di Giampiero Rorato, 2010 Dario De Bastiani editore, Vittorio Veneto. Ed inoltre la citazione della scena finale della commedia “in culo mundi” l’ispirazione è tratta dal libro “Se no xé pan xé polenta” di Espedita Grandesso, 2012 Helvetia Editrice, Spinea (Ve)

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