Il Foresto

A sud del Territorio Padovano tra i fiumi Adige e Brenta esisteva una vastissima area paludosa e boschiva che si chiamava “il Foresto” partiva dal mare Adriatico e arrivava fino a Conselve (caput silve cioè fine della selva); veniva chiamato al maschile proprio per la sua natura pericolosa e autoritaria, secondo i resoconti storici, veniva stimato, apprezzato, usato, valorizzato e al tempo stesso temuto. Si presentava come una ricca riserva di piante, usate nella costruzione dei fabbricati ed anche ridotte in tavole per l’edilizia e l’arredamento, era anche una grande riserva ittica di ogni specie di pesci d’acqua dolce e di avifauna con uccelli stanziali e migratori, pescati e cacciati per essere portati nelle tavole dei banchetti di tutta la regione.
Una zona molto più bassa del livello del mare e quindi soggetta a continui allagamenti, ricca di alberi e acquitrini molto pericolosi per chi non li conosceva abbastanza o li frequentava con leggerezza, utile nel medioevo perché formava una naturale barriera contro gli eserciti che vi transitavano per conquistare le città della laguna o di questo territorio. Pochi anni dopo il mille una porzione di questo territorio viene donata all’abate benedettino di santa Giustina in Padova e in un primo tempo, assieme ai suoi monaci, si occuparono delle persone, più tardi anche del territorio eseguendo un lavoro di bonifica e di salvaguardia per renderlo fertile, seppur fragile durante le alluvioni, ma generoso durante i raccolti. In un primo momento i monaci benedettini presero residenza nelle comunità di Villa del bosco e di Conca d’albero poi spostarono la sede a Correzzola affrancati dalla Regola di san Benedetto quel “Ora et labora” come la conosciamo oggi ma soprattutto un insieme di precetti che consentiva loro un “buon governo” sul territorio che dovevano accudire.

Poco per volta queste “Corti” si popolarono di numerosi abitanti e spesso molti di loro dovettero fare i conti con il Foresto iniziando dalla interruzione dei privilegi che alcuni nobili veneziani godevano su quest’area, usata spesso per cacciare e pescare. Ricordiamo che il Senato della Repubblica di Venezia poco dopo la sconfitta dei Carraresi ne stabilì anche il dominio e lo affittava per denaro a coloro che donavano una lauta offerta. I monaci pur essendone i proprietari impiegarono molti anni per ristabilire il patrocinio e ci vollero parecchie risorse in carte bollate e compensi accompagnati da attendibili mappe del territorio oltreché dispute in Tribunale prima di arrivare ad un accordo che sanciva i nuovi confini territoriali, intervenne anche un aiuto dal cielo ovviamente, infatti ancora oggi si narra la leggenda del miracolo della Madonna del Limite. Già da tempo i veneziani fissavano il limite territoriale ponendo dei capitelli sui punti stabiliti del confine ed erano realizzati in pietre di cotto e a volte abbelliti con dei dipinti a fresco, in uno di questi “termini” venne dipinta una Madonna con il bambino in braccio, durante la disputa sui confini tra veneziani e monaci proprio per farla terminare avvenne un fatto straordinario il bambino raffigurato in braccio alla Madonna alzando la piccola mano indicò la linea dove doveva passare il confine e così si posero fine alle controversie e si sancì la divisione tra il Dogado e le Corti Benedettine dirette dai monaci (ora questo affresco si trova nella chiesa di Pettorazza Grimani una località posta sulla destra dell’Adige poco distante da Cavarzere in provincia di Venezia).
Il Foresto in questo modo aveva ritrovato i suoi proprietari e iniziò a produrre i suoi benefici: riforniva di pesce e uccelli le mense delle cucine di varie città, non mancava di dare pure altri materiali come ho appena scritto, alberi per fare assi, travi, pali, ma anche altri prodotti, i rami flessibili del salice che venivano intrecciati per realizzare le ceste, le corbe e i cestini di tutte le fatture usati quotidianamente da molte persone, per contenere, trasportare, racchiudere. Sono chiamate anche strope che se adoperate per chiudere i buchi delle fessure tra le assi, si dice “stropa-busi”, i rami venivano sfibrati e conficcati dentro alle fessure che in questo modo venivano rattoppate, utilissimi quando si dovevano chiudere i buchi tra le assi degli scafi per non imbarcare acqua al posto della resina.

Le canne palustri, le arele, usate spesso in edilizia per creare pareti o contro soffitti; unite assieme da cordicelle si formavano delle grandi stuoie “le grisole”, poi applicate ai muri o ai soffitti di case e chiese, rivestite di malta per essere successivamente coperte di intonaco candido, molto spesso affrescato. Esse offrivano l’enorme vantaggio di essere leggere e quindi sul fabbricato caricavano un peso inferiore, in più potevano essere modellate per creare dei soffitti molto particolari come quelli a botte di certe ville di campagna o di certe chiese. Un’altra pianta palustre è il carice chiamato dalle nostre parti “caresin”, piante anfibie dalle foglie lunghe e strette che venivano segate con la falce e poi raccolte, infine seccate e intrecciate per formare delle strisce molto resistenti “i sbalsi” dei legacci che venivano usati sia in agricoltura per legare le spighe appena tagliate durante la mietitura dei cereali, oppure venivano intrecciate per formare le sedute delle sedie, le più comuni, da artigiani “impaja careghe” che le fissavano al bordo della seduta, inoltre avevano tantissimi altri usi sostitutivi delle cordicelle fatte con la canapa.
Con le piante e poi dalle tavole si fabbricavano mobili, carri, botti, cassoni strumenti e utensili, travi e tavole per i pavimenti delle case, coperture ecc. oppure legname per il riscaldamento e il carbone, per alimentare pure le forge delle botteghe artigiane di Venezia, Padova e Chioggia. Piano piano intanto la paziente opera di bonifica attuata dai monaci sul Foresto diede inizio ad un uso più rivolto all’allevamento di animali e alle coltivazioni orticole, iniziarono così ad essere realizzate delle fattorie di vacche da latte e da carne, allevamenti di cavalli, di asini, aumentarono i greggi di pecore e capre, gli allevamenti di animali avicoli, e la “tenenza” delle Corti, diede cibo continuo alle botteghe di Venezia e alle altre città: carne, uova, formaggi di ogni tipo, ma anche verdure, cereali di vario tipo che poi i mulini macinavano per fare le farine.
Un pendolarismo quotidiano di barche, barconi, piene di merci arrivavano a Venezia dal Foresto dei monaci benedettini: “eco ciò xe rivà i Foresti”, eccoli hanno attaccato al molo quelli del Foresto”, uomini, barche e prodotti provenienti dal Foresto, quei Foresti che senza dubbio trafficavano con Venezia più volte al giorno durante la settimana, arrivavano in molti e chissà se sono riusciti a classificare un certo tipo di persone: quelli che arrivano da fuori città, non essendo marittimi, ma sono solo dei trasportatori pendolari e chiamati i Forestieri che anche oggi chiamiamo in questo modo.
Le fonti di questo articolo sono tratte dai libri “Il cammino di una Rinascita” a cura di Girolama Borella edizione del Comune di Correzzola e edizioni Proget di Albignasego, 2017, (la foto della mappa di inizio articolo) e “Storie in Saccisica e dintorni” edizione 2000 pubblicato dalla Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco (le due foto dell’impagliatore e della donna che fa gli sbalsi).
Tutte le altre fotografie sono di Paolo Nequinio.