La scuola
S fido chiunque mi sta leggendo a ricordare come era fatta la sua scuola, io almeno devo sforzarmi non poco a stabilire come erano composte le aule o la disposizione dei banchi. Tutti noi ci ricordiamo tanti episodi che dentro la scuola sono capitati negli anni che la abbiamo frequentata, sarebbe poprio bello poterli narrare uno ad uno per mettere in luce come per ogni piccolo fatto, in sè, è racchiuso qualcosa di incancellabile. Si potrebbe dire che a scuola ne sono successi di tutti i colori sia con i compagni che con le maestre ma soprattutto nelle “stagioni” della nostra vita perché siamo entrati a far parte di questa piccola comunità quando eravamo bambini e ne siamo usciti che eravamo diventati degli adolescenti, almeno quelli che l’hanno frequentata quando, per legge, è diventata scuola dell’obbligo, fino a 15 anni.
A scuola abbiamo sperimentato certi valori che poi ci hanno accompagnato e ci accompagnano tuttora nella nostra vita di tutti i giorni, uno di questi, il più importante, è l’amicizia, quella che si instaura fra coetanei. Tra maschi era facile diventare amici perché molte erano le cose che si condividevano soprattutto nel gioco, quante partite a calcio abbiamo fatto, in egual misura anche le femmine avevano argomenti utili a stabilire delle amicizie vere ma io non le ho mai viste giocare a certi giochi di squadra dove la competizione aumentava l’entusiasmo e le vittorie nei confronti della squadra avversaria creavano momenti di felicità indimenticabile. Ogni “tempo libero” poi era la scusa buona per proporre delle rivincite che poi proseguivano anche nel dopo scuola davanti al sagrato della chiesa o in qualsiasi campo d’erba che ci sembrava adatto a queste interminabili sfide. Se poi qualche bene informato ci aggiornava degli eventi calcistici nazionali diventava automatico immedesimarsi nei colori delle squadre nazionali, perfino la Spal fece capolino nelle nostre sfide.
Ma la scuola era anche una realtà seria, molto seria, soprattutto se si aveva come insegnante qualcuno di particolarmente rigido che chiedeva rigore assoluto e girava per l’aula con la bacchetta per picchiare sulle dita di quelli che erano stati colti in fallo a copiare o a scambiare appunti col vicino di banco. Metodi duri certo forse anche malintenzionati ma questo è il giudizio che ne diamo oggi e non consideriamo che questi insegnanti erano stati educati alla scuola dei “piccoli balilla” del ventennio fascista.
Fortunati invece erano quelli che avevano una maestra come insegnante magari dal profondo senso materno attenta alle necessità dei più deboli o ritardatari nell’apprendere anche le più semplici regole di matematica o di geografia.
Qui vorrei raccontare di una maestra che aveva a cuore ogni bambino e bambina senza distinzioni di provenienza sociale e ricordiamoci che in certi periodi della nostra storia locale le difficoltà erano sempre persenti e se la muta rassegnazione faceva sì che ci si doveva adattare alla situazione sociale la cultura andava di pari passo e tutti noi ricordiamo che le nostre mamme ci raccontavano di aver frequentato la scuola fino alla terza elementare. Ogni conquista culturale costava impegno e sudore perché in tutte le nostre case le necessità erano tante e perciò se la mamma doveva aiutare il papà nel lavoro dei campi, la figlia più grande, ma in età scolare, doveva accudire l’ultima sorella o fratello arrivata a far parte della famiglia. Tutti erano utili e non c’era sempre il tempo per assecondare i percorsi scolastici imposti dall’insegnamento della maestra e fatto a scuola.
Questa maestra invece riusciva in mille modi a conciliare ad ogni esigenza anche perché le classi erano composte da pochi alunni e le scuole erano composte da poche aule perché erano fabbricati e recuperati adiacenti alla chiesa del paese o addiritura erano stati dati in concessione proprio dai parroci dei paesi. Quindi si facevano lezioni per i piccoli al mattino e per i più grandicelli al pomeriggio. In queste condizioni insegnare era proprio una impresa eroica e soprattutto d’inverno quando la neve copriva ben bene le strade e i bambini per recarsi a scuola dovevano fare molta strada a piedi con calzature poco conformi e vestiti poco coprenti. La maestrina invece partiva da Padova ogni mattina, prendeva la corriera, se le strade lo permettevano, altrimenti usava una bicicletta, ma se le condizioni erano pessime si fermava a dormire da qualche conoscente per recarsi alla scuola ogni giorno anche dopo aver fatto qualche decina di chilometri, dove la attendeva una scuola fredda e quindi da riscaldare con la stufa a legna che era stata rifornita da alcune famiglie generose o comprata impegnando parte del suo compenso e poi aspettava l’arrivo dei suoi alunni magari fradici perché lungo la strada si erano riempiti di palle di neve. Questo è solo un episodio che ho voluto raccontare per parlare di questo periodo importante della nostra vita dove veramente abbiamo speso tantissimi momenti che tutti noi possiamo raccontare.
La foto che ho messo raffigura una pluriclasse di una località della bassa padovana, Cà Molin, si trova vicino a Bovolenta piccolo paese recentemente citato dalle cronache perché ha subito l’alluvione del 2010 ed anche in questi giorni ha rischiato la stessa sorte.I bambini immortalati nel cortile della scuola coperto di neve, ai primi anni sessanta, sono sorridenti e felici perché giocano assieme in questo contesto straordinario causato dalla nevicata inaspettata, poi tornati a casa dovevano fare i conti con le “buganse“, i geloni ai piedi, che facevano un gran male e non facevano dormire la notte e solo certe creme di mamma potevano far guarire in breve tempo. In questa foto è rimasto il ricordo di un giorno da non dimenticare e grazie alla macchinetta fotografica della maestra anche un momento indelebile.