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La notte di san Giovanni

La notte di san Giovanni

Questo articolo nasce un poco scomposto a causa della tante notizie raccolte e che non sono riuscito a riordinare anche se sapevo di dover scrivere qualcosa del periodo più ricco dell’anno astronomico “il solstizio d’estate“. Per la vita nelle campagne erano tanti i lavori che si dovevano fare in questi giorni così importanti; c’era la mietitura del grano e dell’orzo, i fuselli di spighe venivano falciati tra queste date importanti: il 21 giugno inizio d’estate, il 24 giugno la natività di san Giovanni Battista e il 29 giugno festa dei santi Pietro e Paolo, allora si diceva “a san Giovan col pugno in man“, per indicare le spighe in pugno così ricche e secche già abili alla macina per produrre la buona farina per fare il pane e le focacce. Uomini col falcetto “le sesole” e organizzati in file precise che dovevano tagliarle e raccoglierle in fasci per poi formare dei mucchi di sette le “crosete“, dietro a loro i carri con i buoi legati al timone quattro per carro e altri due uomini ai lati del carro con la forca che lo caricavano di fasci di spighe, a passo lento ma a volte le bestie si fermavano.

Uomini seminudi che lavoravano al sole con in testa dei grandi cappelli fatti di paglia intrecciata e certi giovanotti in vacanza dalla scuola li aspettava queste diverse fatiche ma anche divertiti per la libertà riconquistata, e sfoggiavano muscolature asciutte che si facevano ammirare. Univano gioco a lavoro e quando rientravano in corte dove li aspettava la trebbia ormai pronta, con la lunga cinghia che iniziava a girare lentamente per mettere in moto tutto il meccanismo che divideva i chicchi dal fusto e dalla pula. Tutti erano attesi e pronti, le donne avevano preparato i sacchi per insaccare il frumento e poi una nuvola di polvere riempiva la corte segno dell’inizio della trebbiatura.

La trebbia che il giorno prima era arrivava nella corte doveva macchinare quintali di spighe anche di diversi proprietari, si doveva far presto e tutto era ben condiviso, molti si aiutavano tra di loro per questo primo e importante raccolto offerto dalla campagna. Per questo si doveva lavorare senza soste per alcuni giorni perché poi la trebbia veniva spostata in un’altra corte vicina, dove era attesa. I pasti si riducevano a poca cosa presa al volo, alcune fette di sopressa con della polenta abbrustolita o pane biscotto ed anche dei pezzi di formaggio fresco il tutto inaffiato di acqua di pozzo fresca o vino pure lui fresco, si doveva ingurgitare tutta la polvere respirata e la fatica diminuiva quando si cantavano canzoni popolari perché si voleva festeggiare la bontà del raccolto tra un ordine e un comando, tanto serviva per attirare l’attenzione di quei giovanotti che si lasciavano andare a dello scarso impegno ma anche a qualche azione poco edificante con qualche donna o ragazza. Se la stanchezza prendeva il sopravvento e qualcuno decideva di accendersi una sigaretta per corroborarsi dalla fatica, allora sì che si correva il pericolo di generare un bell’incendio nella corte così venivano richiamati come gli altri aiutati dalla confusione e dal buio che si appartavano per baciare o accarezzare qualche ragazza tirata via dalla tramoggia che di conseguenza traboccava facendo cadere per terra il frumento dissipandolo ma per la gioia di colombi e passeri che il giorno dopo si potevano ingozzare.

Quando arrivava la notte il ritmo continuava ma con minore intensità per favorire il riposo degli esausti e così le donne che sapevano del periodo astrale, si incamminavano veloci verso il campo di erba medica dove si spogliavano, protette dal buio, e si rotolavano sull’erba bagnata dalla rugiada, come avevano fatto le loro mamme e le loro nonne, dei loro racconti sul potere magico delle lacrime di san Giovanni (la rugiada), che le avrebbe rese più fertili e feconde; o semplicemente perché serviva a togliere lo strato di polvere dalla loro pelle, oppure sapevano dei benefici che la pelle acquistava togliendole le imperfezione, di certo la rugiada, ma soprattutto la “merda de lu” quella che si conosce come la “bava di lumaca” dispersa di sicuro tra le foglioline del prato avrebbe conferito alla pelle un aspetto luminoso e perfetto. Credenze, riti, tradizioni ancestrali che si tramandavano dai tempi antichi ma ai quali ci si appoggiava per poter ritrovare una salute più forte, pur vivendo in case poco salubri costruite di pietre crude e tetti di paglia.

E se oggi tutto è meccanizzato notavo con piacere che certe tradizioni rimangono ferme: una è la raccolta delle erbe officinali fatta in questo periodo conosciuto come il “momento balsamico” quando contengono tutte le proprietà curative, come pure il secondo la raccolta delle noci molli compito preciso di una donna esperta che poi realizza il nocino, un liquore conosciuto in tutto il mondo, forse una antica eredità tratta dai riti celtici della Normandia, dove si dice che le donne si riunivano ai piedi del grande noce per fare una bevanda scura che serviva a riacquistare tutti quei poteri magici con il quale poi dovevano misurarsi con le potenze del male, noi sappiamo che è un ottimo aiuto ad alleviare certi problemi allo stomaco.

Nei giorni del solstizio si raccoglieva il grano e si raccoglieva la lavanda, le sue spighe profumate ricche di profumo che si spandeva per tutta la campagna, potate e suddivise per metterle a seccare a testa in giù dopo averle raccolte in mazzetti e poi i suoi fiori secchi sgranati e messi dentro a dei piccoli sacchetti da sistemare tra le stoffe, quelle di lana in particolare così da preservarle dalle tarme che le potevano rovinare in modo irreparabile.

Era la notte dei fuochi per bruciare le stoppie secche e raccolte, fuochi accesi per scacciare le forze avverse al raccolto ma anche segni propiziatori, dei richiami alla natura che in qualche modo doveva sostenere il futuro della famiglia, rinsaldare il legame, per niente arrogante, consapevoli che tutto era nelle mani della Provvidenza e se arrivavano delle tempeste non erano per fare del male ma bensì per provare la fedeltà degli uomini alle leggi della natura e quel lento fluire per produrre una adeguata quantità di generi utili al sostentamento della famiglia. Tutto veniva accolto con armonia anche quando capitavano le tragedie come le due guerre mondiali ma oggi possiamo garantire che anche se più modernizzati stiamo riconquistando quel mondo di riti e di tradizioni antiche, ma vere.

Alla fine del raccolto e della trebbiatura iniziava la festa un momento dove ogni componente era invitato a condividere il cibo, le bevande e i racconti, iniziava la tradizionale “ganzega”, un grande banchetto allietato dal suonatore di fisarmonica che faceva ballare tutti. Era un richiamo alla vita e alla speranza, la notte magica del solstizio d’estate poteva anche generare delle cose stupende se per caso qualche ragazzo si era spinto più in là di un semplice bacio e così le famiglie si allargavano e crescevano di numero come pure i loro componenti. Poi tutti ritornavano alle proprie abitazioni e per molti giorni di ricordavano i momenti vissuti assieme, sia quelli duri ma per qualcuno quelli più belli.

La foto “festa della trebbiatura” è della collezione di Anna Volpin. Tutte le altre foto sono della collezione di Paolo Nequinio.
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