La pasquetta
Il “Lunedì dell’Angelo” è il giorno successivo alla festa di Pasqua e qualcuno lo chiama “pasquetta”, anche se molti decenni fa questo nome veniva attribuito al giorno dell’Epifania che è il 6 di gennaio. Dopo la riforma attuata sul calendario è consuetudine ormai festeggiare la Pasqua la domenica dopo il plenilunio di marzo e sempre quello successivo all’equinozio di primavera, il “lunedì dell’angelo” è quello dopo, stampato sul calendario con il colore dei giorni di festa, un giorno di vacanza e di ferie per chi va a scuola o al lavoro.
Questo giorno significava la fine delle vacanze pasquali e tempo fa erano in molti quelli che lo usava per stare assieme ai familiari, magari non l’intera giornata ma una buona parte di essa, serviva per godere di molti altri momenti da condividere per ritrovarsi, ricongiungersi tra coloro che avevano vissuto l’infanzia e la giovinezza assieme nella casa paterna e poi erano partiti per andare a lavorare nelle fabbriche della Lombardia e del Piemonte.
Dalla nostra famiglia era usato per effettuare tutto un giro per portare i saluti agli altri parenti, scambiarci gli auguri, poi si ritornava alla casa della nonna per salutare quelli che dovevano partire per le loro città. Negli anni del racconto non c’erano molti telefoni nelle case e così sia lo scambio degli auguri come pure i saluti era quasi sempre fatti di persona, ed era bello ed anche interessante perché si aveva modo di condividerli guardandoci negli occhi, abbracciandoci, baciandoci sulle guance, stringendoci le mani, era tutto un dare e ricevere di sensazioni, di esperienze sensoriali che alla fine ci facevano star bene.
Pur essendo un giorno frenetico, spesso rimanevo incantato dai molti avvenimenti che si susseguivano con ritmo e meraviglia, c’era mia nonna che prendeva in disparte le figlie per gli ultimi consigli ed anche per portare delle soluzioni ai problemi che in quel momento preoccupavano qualcuna, la maternità in arrivo, la concordia da ritrovare con il marito, elargiva consigli anche su cose più normali e forse di poco conto come le sue soluzioni per arredare la casa quando la zia tirava fuori una nuova tenda del salotto e chiedeva delle idee da apportare alle finiture, c’era anche quel cappotto che aveva bisogno di essere rimodellato e così interveniva qualche sorella esperta di sartoria e snocciolava la forma adatta, gli uomini invece discorrevano di calcio, di squadre, di lavoro, di impegni, di cambiali, di macchine e quant’altro li riguardava e mi ricordo che non parlavano mai di affari italiani come siamo abituati oggi, perché solo alcuni avevano un televisore in casa o leggeva il giornale, in certi casi anche di fretta.
Se il tempo era bello e molto spesso come da tradizione lo era “se piove sue palme, no piove sui vovi”, “se piove il giorno delle palme, cioè la domenica prima di Pasqua, non piove la domenica dopo, Pasqua e pasquetta”, questa giornata la si viveva tutta all’aria aperta, il più possibile per goderla, impegnarla e ricordarla. Il luogo ideale prescelto erano i prati vicini ai campi della casona, si facevano un sacco di giochi a squadre, “bandiera”, “fasoeto”, “pala avelenata”, “cico”, si giocava fino all’ultimo minuto con sfide interminabili e un gioco di quel giorno si chiamava “rugoeto”, un percorso scavato nel terreno dove si facevano rotolare le uova sode che erano state preparate per tempo, colorate con vari colori di tipo naturale per poterle distinguere e così essere faclitati a fare delle squadre. La nonna o le zie che li avevano cotti per farli diventare sodi, ci aveva messo dentro all’acqua di cottura delle foglie di ortica per far diventare la buccia di color verde, i fondi del caffè d’orzo per farli diventare marrone, i fiori di “pissacan” tarassaco, per farli diventare gialli, poi si formavano i vari gruppi e si lanciavano giù per la pista che aveva sempre un paio di curve per darle maggior difficoltà e così le uova rotolavono e si toccavano tra di loro e qualcuna si ammaccava la scorza, quella rovinata veniva conquistata dal concorrente e lo sfidante la perdeva perché l’avversario se la mangiava e di vivo piacere, il concorrente che perdeva l’uovo veniva eliminato. Alla fine rimanevano solo due sfidanti e così si proceveva all’eliminazione diretta e con le uova in mano, le facevano cozzare una contro l’altra, la prima che si rompeva il guscio perdeva la partita e si proclamava il vincitore assoluto. Il gioco serviva per stare insieme, far giocare i grandi e i piccoli, il divertimento era sempre assicurato se non si intrufolava lo zio furbo che magari si era procurato un bel sasso di fiume che assomigliava ad un uovo e faceva strage delle altre uova barando spudoratamente. Verso l’imbrunire si riempivano di valige e dopo infiniti saluti c’era chi ripartiva per tornare a casa sua o con la propria macchina o prendendo il treno alla stazione di Padova.
E la casona lentamente si svuotava con tutto il suo disordine da sistemare, mia nonna ritornava malinconica perché vedeva partire le figlie, i loro mariti e i nipoti, si augurava di passare in fretta il tempo che la divideva dall’estate perché li avrebbe rivisti tutti. E poi superato il primo momento ricominciava il lavoro di tutti i giorni, sia nei campi che nel pollaio e guardava con aria diversa questa grande casa che adesso le sembrava ancora più grande.
Non tutti però partecipavano alla festa di pasquetta che si faceva dai nonni perché i più grandi, la vivevano con i loro coetanei, lontano dagli sguardi degli adulti. Si riunivano ai ragazzi e alle ragazze della parrocchia o agli amici di scuola dandosi appuntamento davanti alla chiesa e poi partivano tutti assieme per raggiungere un luogo poco conosciuto, individuato durante qualche scorribanda in bicicletta, poteva essere un argine di canale dei paraggi, un pezzo di campo riparato da una folta siepe, una corte di una casa abbandonata. Andavano per giocare assieme, di solito a calcio, sulle fasce d’erba cresciuta lungo i confini dei campi coltivati, “el careson”, vi rimanevano fino all’imbrunire e man mano che passavano gli anni sempre di più lasciavano da parte la palla per divertirsi a chiaccherare assieme alle ragazze che li avevano seguiti. Altri con la bicicletta si spingevano fino ai “colli euganei” per raggiungere un posto prestabilito, dove li aspettava una giornata piuttosto intensa di giochi a squadre miste per far partecipi anche le ragazze del gruppo. A volte nascevano i primi amori perché ci scappava un bacio dato alla ragazza più simpatica, lo facevano sempre di nascosto, tra i cespugli, altrimenti si correva il rischio di diventare lo zimbello degli altri della comitiva, sia sulla strada di ritorno in paese, ma anche i giorni successivi nella piazza del paese, o nella piccola trattoria che era diventata la loro tana dove era solito vederli riuniti. Se li incontravi li sentivi bisticciare perché c’era chi si vergognava e così si arrabbiava in modo aspro, ma c’era pure chi si inorgogliva e faceva il gradasso con gli altri, perché era riuscito a prevalere dato che aveva dato il bacio alla ragazza del suo amico più caro.
Ma qui è molto interessante ricordare le provviste che ci si portava dietro in questo giorno, come pranzo o merenda di queste scampagnate: le uova sode come ho già scritto ma anche un “pane speciale”, tipico, distribuito sopra al tavolino di ferro quello del “brolo” il giardino di molte case di una volta, da accompagnare a delle buone fette di salame, sopressa, pancetta, coppa o dei pezzetti di formaggio e poi inaffiato di buon vino fresco appena spillato dalla damigiana della cantina.
Lo schisoto (pane azimo leggermente dolce): 500 gr. di farina bianca, 100 gr. di grasso di animale (strutto o grasso d’oca, ma per i palati che non accettano questi gusti o sono più tendenti al magro allora si sostituisce con l’olio d’oliva o burro, ma potete immaginare con chiarezza il sapore diverso dal dolce tradizionale, infatti una volta per nascondere il sapore intenso di questi grassi animali poi si aggiungeva un bicchierino di grappa che qui non metto tra gli ingredienti), 70 gr. di zucchero, 3 uova, burro per ungere la terrina, se volete aggiungere degli aromi è a vostra discrezione ma tenete ben presente la sua finalità, se lo servite con il tè o lo mangiate come pane da panini imbottiti.
Impastare per bene la farina con il grasso (o il burro), le uova, lo zucchero e un pizzico di sale. Lavorare molto bene la pasta e poi stenderla nella tortiere ben unta di burro, fare delle incisioni in superfice con la punta di un coltello disegnando una griglia. Mettere la tortiera in forno già caldo a 180 gradi e poi lasciandola fino a quando prende un bel colore brunito, passare uno stuzzicadenti per vedere quando e ben cotta. Poi si toglie dal fuoco e si pennella in superfice con poca acqua.
Nella tradizione contadina questo dolce o come si usava chiamarlo “pane dolce” veniva preparato al mattino presto e poi cotto alla fine, dopo i piatti destinati al pranzo. Lo si metteva dentro ad una teglia con coperchio sul piano del focolare perché veniva tutta ricoperta di braci usate per realizzare le altre pietanze, rimaneva lì per un certo tempo dettato dall’esperienza, di solito sui 40 minuti, dato che non conteneva lievito poteva essere esplorato aprendo il coperchio anche più volte proprio per evitare di bruciarlo o di servirlo poco cotto se lo si toglieva in anticipo dal fuoco. Si mangiava con delle gustose fette di salumi, figuriamoci con il prosciutto dolce di Montagnana e poi innaffiato di Friularo, Merlot o Cabernet della bassa padovana o dei colli euganei.
Si assaporavano intensi sapori che chiunque poi li ricordava con piacere anche i giorni successivi, sia nelle palazzine della città, sia durante il resto del periodo di tempo, che divideva dall’altra festa da fare sui campi, il 25 aprile, molto sentita da noi veneti, perché è la festa del patrono di Venezia, san Marco.