La trebbiatura
In una corte contadina, piuttosto grande, arrivava sempre il giorno della trebbiatura del grano, a luglio in genere se non prima, se la stagione estiva era stata calda e secca. Un paio di settimane prima il grano era stato tagliato e raccolto in grandi fasci “le crosete” e accatastati ai bordi del campo, si creavano i “covoni”, in seguito venivano caricati sui carri e portati in un angolo dell’aia della casa “la corte”, o cortile che quasi tutti avevano, ma chi ne era sprovvisto doveva portarli nella corte dei vicini e doveva metterli in un posto a parte. Infatti la trebbia non andava di casa in casa perché metterla in posa e poi accenderla richiedeva abbastanza tempo, conseguenza per cui era preferibile fare la trebbiatura in cortili grandi e già prenotati per tempo, poter metterla a regime poteva richiedere un paio di giorni, se il raccolto era scarso era più conveniente raggruppare il lavoro con quello di un’altro vicino.
Quando arrivava la trebbia e il suo carro trainato dai buoi, un grande cilindro di ferro montato su delle grandi ruote, col camino alto in cielo e acceso per produrre vapore che in seguito azionava la macchina separatrice, sbuffava un fumo intenso, poi veniva agganciata da una grande cinghia che di fatto metteva in moto tutto il meccanismo della trebbia allora la corte si animava sul serio con tutto il suo fermento, chi portava la legna per la caldaia che poi azionava la cinghia, chi liberava gli ingranaggi e preparava le bocche dove venivano calate le spighe di grano o qualche altro cereale, i sacchi di iuta posti all’uscita per insaccarlo, dopo che era passato per la tramoggia e vicino le stare che misuravano la quantità, tutti correvano per la corte a destra e sinistra per non far ritardare troppo il lavoro che comunque era tanto, le donne col cappello in testa e il fazzoletto al collo per coprirsi dal sole cocente e riparare la pelle dalla polvere che si spandeva durante la trebbiatura, intanto portavano le barelle dal covone di “crosette” (le spighe di grano raccolte a fasci) e poi trasferivano la paglia che usciva dalla trebbia nel pagliaio iniziato di fianco alla stalla.
Gli uomini che stavano sopra la trebbia facevano cadere le spighe dentro alla bocca della trebbia e questa col suo continuo andirivieni separava i chicchi e la pula dai gambi, anche loro portavano dei grandi cappelli di paglia molto spesso seminudi per il caldo del periodo e dei molti movimenti fatti con le forche o le pale di legno, sia per non interrompere il lavoro della macchina trebbiatrice o perché dovevano insaccare i chicchi dentro ai sacchi si iuta. Si lavorava a ciclo continuo anche con il buio aiutati dalla luce del fuoco di lumi ad olio “i canfini” (lampade con il bulbo di vetro per proteggere la fiamma dalle folate di vento) disposti a cerchio e a giusta distanza dai passaggi delle persone perché se “scappava” la fiamma poteva innescare il finimondo. La trebbiatura poteva durare alcuni giorni o perché si erano radunati più raccolti assieme e questo doveva anche conciliare con la esatta suddivisione dei sacchi di chicchi tra i vari proprietari o perché lo stesso padrone dei campi aveva raccolto molto prodotto in quella stagione. Si doveva comunque far presto con lo sguardo rivolto al cielo e si sperava nella sua clemenza anche perché i giorni precedenti oltre al lavoro del taglio delle spighe c’erano state preghiere insistenti ai santi protettori del raccolto perché bastava un temporale forte a compromettere l’intero raccolto che veniva bagnato e quindi essere preda di muffe o parassiti tanto aggressivi da fargli perdere la qualità se non addirittura diventare immangiabile.
Alla fine della trebbiatura cominciava la festa “la ganzega”, le donne in cucina sfornavano pane in continuazione o grandi “caliere” di polenta accompagnate da grosse fette di sopressa presa dalla dispensa e molto utile per quel momento, focacce lievitate dal gusto di uova e anice e vino della vendemmia precedente spillato dalle botti della “caneva”, la cantina. L’acqua del pozzo veniva usata per bere o anche per scrollarsi di dosso la polvere che la trebbiatura aveva attaccato alla pelle e quando si andava per le lunghe perché molte persone avevano creato una fila, il vicino fossato diventava un luogo di purificazione, ci si immergeva nell’acqua corrente, si rinfrescava il viso, le braccia, le gambe, con molta naturalezza anche perché una esperienza così capitava solo una volta all’anno e allora a volte si eludevano certe regole di intimità e tutto prendeva il gusto della libertà quasi totale, poteva essere il momento di sperimentare la gioia di vivere dove c’era chi poteva ammirare la ragazza o la donna che si lavava il corpo dopo aver sbottonato il grembiule, e non sempre si indossavano reggiseni o mutandine. Forme anatomiche in giovane evoluzione poco celate agli sguardi degli altri presenti così lo stesso facevano i ragazzi e gli uomini già seminudi o coperti solo di pantaloni e una sdrucita canottiera, si poteva osservare anche chi faceva un bagno quasi totale togliendosi le braghe che erano tirate su da uno spago che cingeva la vita, ed era tutto normale e impudico in quella vita che oggi ci sembra fantastica e dura dalla fatica, dove la promiscuità era la regola senza malizia, almeno nelle apparenze perché poi tali racconti stimolati dalla fantasia diventavano peccato alle orecchie del confessore.
La festa terminava quando la trebbia veniva spenta e raffreddata e quando si riattaccavano i buoi ai due mezzi e si ripartiva, cosi si ripuliva per bene la corte e si riprendevano i lavori di tutti i giorni e interrotti per la trebbiatura. E la si ricordava a lungo questa parentesi ricca del suo grande significato che ne veniva tratto, quel grano raccolto dopo la semina avvenuta in autunno e la maturazione in inverno e primavera, la possibilità di produrre la farina per il pane, moneta per il mugnaio, e altra moneta per pagare l’affitto della terra del padrone; si confidava molto in questo raccolto perché se scarseggiava diventava una vera lotta vitale il sostentamento delle molte bocche da sfamare, allora tutto si consumava con parsimonia ed era difficile, veramente duro razionare la poca farina da usare.
Si attendeva quindi il raccolto del granturco che poi macinato produceva la farina della polenta ma non era una esperienza uguale a quella della trebbiatura del grano, ma molto diversa.
Le foto sono della collezione Bassan, Canova Gianni di Correzzola.