Le onoranze
Alcuni decenni fa esisteva ancora una consuetudine molto sentita dalla gente di campagna, mezzadri, fittavoli, contadini, si dovevano portare al padrone del fondo dei prodotti tolti dalla dispensa, che erano parte del fabbisogno della famiglia e frutto del lavoro e della cura dei fittavoli, erano “le onoranse”, “le onoranze”, dei fiaschi di vino presi dalla cantina, un paio d’oche, una coppia di sopresse, una dozzina di uova, qualche dolce o dei biscotti fatti dalle massaie e messi da parte con fatica in segno di riconoscenza, di augurio e per farsi ben volere e venivano consegnati alcuni giorni prima di Pasqua.
Succede spesso che ogni tradizione affonda la sua origine nel tempo e così proviamo a scoprire come sono nate e perché si sono radicate le onoranze come le ricordiamo oggi. Venezia ha costruito la sua ricchezza con i traffici marittimi, sia quelli di tipo commerciale che militare e man mano che passavano i secoli ha sempre cercato di salvaguardarli anche quando, dopo le Crociate, certi porti dell’oriente, come Costantinopoli (odierna Istambul), sono diventati strategici per tutta l’area del mar Egeo. Alcuni di essi sono passati ad essere controllati dai veneziani solo che erano sgraditi ai turchi che appena potevano li contrastarono con ogni mezzo, con l’aumento dei dazi ma anche con continue guerre a volte disastrose e doverli proteggere comportava un’impegno sempre più difficile e costoso economicamente.
Nei secoli ‘300 e ‘400 alcuni Dogi rivolsero lo sguardo fuori dalla laguna e dal mare e puntarono alla terra ferma, quella che avvolgeva la gronda lagunare già occupata dalle Signorie vicine che sovente cercavano di sottometterla specialmente nei momenti di debolezza politica o dopo una sconfitta militare, ma Venezia aveva un esercito diventato ormai permanente e soprattutto ben pagato che l’ha sempre difesa in maniera abile. Nel ‘300 infatti aveva dovuto scontrarsi con quello dei Genovesi e Francesi nella guerra di Chioggia o guerra del sale e poi con quello dei Carraresi padovani che quasi ci erano riusciti e anche con gli Asburgo quando si impadronirono dei porti dell’Adriatico del nord, ad insidiarli si aggiunsero anche i Visconti e gli Estensi partendo dal Polesine e occupando le vie d’acqua del Po e dell’Adige e tra battaglie e scaramucce la Repubblica creò lo “Stato de Tera”, che anche oggi ricordiamo per la presenza del terzo “pilo”, pennone in bronzo, piantato nella piazza san Marco di fronte alla basilica di san Marco, a fianco degli altri due, quello che testimonia il dominio sul mare e l’altro sulla chiesa.
Il papato non rimaneva di certo fuori dai conflitti e voleva conquistare Venezia perché la riteneva arrogante e autonoma, così si organizzò una Lega firmata a Cambrai e poi gli eserciti marciarono verso la Serenissima per occuparla e nella battaglia di Agnadello, una località vicina a Crema, le truppe veneziane subirono una pesante sconfitta e rotte le difese gli eserciti ebbero vita facile sulle varie città roccaforti della pianura veneta così arrivarono alle porte di Treviso e Mestre, solo l’intervento dei contadini con il loro coraggio e gli operai dell’Arsenale, gli arsenalotti, aiutati da un oculato lavoro diplomatico messo in atto per dividere gli occupanti, riuscirono a salvare Venezia e la Repubblica da una fine ormai segnata. Finita la guerra si fece strada l’importanza di adottare altre forme di tutela e controllo territoriale, una neutralità armata e l’uso della diplomazia per sedare i conflitti, questo permise alla città di crescere libera, più bella e il suo territorio di prosperare, tanto che si finanziarono diverse opere di ingegneria idraulica per sanare alcune aree paludose presenti in Polesine, bassa veronese e padovana ma pure certe zone umide vicine a Chioggia, Cavarzere, Caorle. Certi fiumi furono modificati nel loro flusso naturale per farli sfociare nel mare aperto, furono alzati gli argini e nei nuovi terreni strappati all’acqua che li allagava iniziarono delle coltivazioni intensive per produrre ingenti quantità di frutti e in questo modo non doverli comprare altrove.
Per far soggiornare la nobiltà in questi nuovi territori si costruirono delle dimore chiedendo l’aiuto ai migliori architetti del tempo e attorno a queste ville sorsero dei nuovi paesi occupati dagli abitanti che poi lavoravano nelle campagne o accudivano gli armenti o la villa del proprietario. Iniziò un periodo floridissimo tanto che a Venezia furono accolte e valorizzate idee e novità tanto da farla diventare la capitale più significativa di tutta Europa, moltissimi studiosi e artisti vi soggiornarono per imparare, conoscere, studiare e portare le novità che circolavano in quel periodo, si stamparono libri in latino, greco, aramaico, armeno e volgare usando il sistema a caratteri mobili ideato da Gutemberg in Alemagna, la pittura a olio tipica della pittura fiamminga, la cucina subì notevoli cambiamenti portati dai “foresti”, esuli romani o ebrei spagnoli, germanici, turchi e nelle ville di campagna, per sbalordire gli ospiti, si sperimentavano tutte le novità passate inosservate in laguna, così certi usi e costumi come “le onoranse” entrarono di diritto nelle consuetudini e nei comportamenti delle genti venete.
Le “onoranse” questo modo per onorare un impegno acceso con il padrone del fondo coltivato, un cesto di prodotti della terra, a volte usati come moneta per pagare l’affitto della casa e del terreno quando i contratti non esistevano e si sono trascinate per secoli quel tanto che ancora oggi ne ricordiamo la “costumansa” il “modo di fare”, almeno fino all’introduzione della moneta che le soppiantò, poi altre riforme agrarie introdussero i contratti d’affitto e così le “onoranse” sparirono.
Sulle onoranze sono ancora vivi i ricordi almeno nei racconti degli anziani, il lavoro fatto a tempo debito quando si coglievano i germogli di ortica per tritarli e darli alle oche come pasto per far diventare più dolci le loro carni sapendo che almeno una unita a delle pollastre, una formetta di formaggio e alcuni dolci, poi entravano nelle cucine dei padroni per farsi onore in questo periodo pasquale e uno di questi dolci erano “i Rufioi” dalla parola ruffianarsi, farsi ben volere, il ruffiano e la ruffiana sono dei personaggi importanti della vita di quel tempo, a teatro come pure nei casini, dei circoli letterari che nascevano dentro a certe corti di nobili.
Chi li conosce questi dolci ne apprezza anche la loro sana trasgressione in questo periodo di Quaresima e sa anche che se vuole trovare la ricetta originale non la troverà mai perché è soggetta alle più varie interpretazioni, che dipendono dal territorio dove si fanno, dal paese o dal periodo, quella descritta qui è una ricetta semplice e facile, basta un po’ di pratica.
I rufioi dolci, ingredienti per la pasta sfoglia: 400 gr. farina 00, 150 gr. di zucchero, 3 uova, 2 più un tuorlo, mezzo bicchiere di latte, 50 gr. di burro, 1 bicchierino di grappa, sale un pizzico, una bustina di vanillina, marmellata di fichi oppure mostarda di Cologna Veneta o altra marmellata bella soda, abbondante olio di semi per friggere, zucchero a velo.
Sbattere le due uova con lo zucchero in una terrina più il tuorlo, tenendo a parte un albume che serve alla fine, poi versare la grappa e il latte con il burro ammorbidito molto bene. Amalgamare bene tutto, aggiungere un pizzico di sale e la farina fino ad ottenere una pasta abbastanza soffice, toglierla dalla terrina e metterla in una spianatoia per impastarla per bene aggiugendo all’occorrenza dell’altra farina, l’impasto deve risultare bello morbido e liscio. Tagliare l’impasto a pezzi e farlo passare sulla macchinetta laminatrice per più volte oppure a mano con il mattarello fino ad ottenere un foglio di pasta molto sottile, un millimetro un millimetro e mezzo. Tagliarla con un bicchiere per farne tanti dischi dove al suo interno mettiamo un cucchiaino di marmellata o mostarda, li chiudiamo con una leggera pressione e passiamo i bordi con l’albume così non si aprono durante la cottura, abbiamo fatto così tante mezzelune che poi immergiamo nell’olio molto caldo, due tre alla volta e le friggiamo per alcuni minuti da ambo i lati per indorarle leggermente senza bruciarle. Le tiriamo fuori dall’olio e le mettiamo sulla carta assorbente per togliere l’olio in eccesso, le spolveriamo con lo zucchero a velo e le consumiamo. Per non cadere troppo in tentazione prepariamo questi “rufioi” la sera del Sabato Santo e consumiamoli il giorno dopo, quello della festa di Pasqua.
Questo dolce va accompagnato con il Vin Santo, il Torcolato di Breganze, il Passito di Fregona, si bevono a bicchierini, ma se invece vogliamo inaffiarli allora va bene un Moscato dei Colli euganei o per chi vuole con il re dei vini il Recioto della Valpolicella, si sentiranno nel palato tanti gusti, uno più diverso dall’altro, quasi dei passaggi, proprio come quando c’è il passaggio dalla vita recisa, la potatura, alla nuova fioritura.
Rufioi salati, altra variante dei “rufioi” è quella salata, questi gli ingredienti: 6 uova, 600 gr. farina fiore, un poca di farina di semola di grano duro quanto ne viene richiesta per fare una sfoglia morbida ed elastica, un bel pizzico di sale. Si impasta tutto molto bene e si fa la sfoglia come quella delle tagliatelle per intendersi, il ripieno viene fatto con della ricotta e delle erbette selvatiche, i “carletti” e le “rosole”, le piantine fresche del papavero, sono due erbe che ben si sposano tra di loro, devono essere lessate, strizzate e tritate poi amalgamate con formaggio tenero e consistente al bisogno, se è troppo faticoso trovare le erbe selvatiche si fanno con gli spinacci.
Si impastano uova e farina e si corregge con acqua in modo da realizzare una sfoglia sottile, quasi trasparente, non fragile. Fatta la sfoglia e distesa in una spianatoia la si taglia in forma quadrata e con un cucchiaino ci mettiamo al centro un poco di ripieno e poi richiudiamo i lati facendo una leggera. Questi “rufioi” si devono tenere in luogo fresco per alcune ore così da farli asciugare e devono essere consumati il prima possibile per evitare di compromettere il ripieno, per questo vengono preparati per il giorno stesso del loro consumo.
Prendere una pentola capiente e si fa bollire dell’acqua leggermente salata e poi si devono immergere pochi alla volta per alcuni minuti, come si fa con i ravioli, fino alla loro cottura, non conviene cucinarli troppo, si tolgono dall’acqua, si servono con burro fuso insaporito di salvia o con un condimento a piacere come il sugo di pomodoro o semplice olio di oliva aromatizzato, altrimenti il gusto delle erbette viene coperto dagli altri sapori.
Si accompagnano con del buon vino bianco fruttato come il Soave, il Garganega o il Verduzzo.
La mia nonna partiva da casa a piedi con una grande cesta che conteneva tutta la merce che era riuscita a mettere da parte per i padroni, la accompagnava qualcuna della famiglia e potevano essere una figlia, una nipote, una sorella, un’amica di famiglia, si vestivano bene e raggiungevano la città, quando erano fortunate trovavano qualcuno con un mezzo di trasporto, un cavallo con il carretto, prestato chiedendolo alcuni giorni prima e che si era permesso di accompagnarle in città poi suonavano al portone e venivano accolte nel tinello e rimanevano dai padroni per l’intera mattina parlando con loro ed anche con chi si era aggiunto al momento, poi salutavano e riprendevano la strada del rientro a casa. Se il brav’uomo che le aveva accompagnate col cavallo aveva avuto la pazienza di aspettare le riportava indietro, altrimenti dovevano tornare a piedi anche se la strada era lunga, diventava così il tempo del racconto utile per scambiarsi le ultime novità e se al fianco della nonna c’era una persona di fiducia allora gli svelava anche i suoi segreti. Poteva succedere che incrociassero qualcuno del paese che così si univa a loro oppure in altri casi arrivava il nonno col furgoncino, quella bicicletta a tre ruote col cassone davanti, usata per trasportare le sue merci, montavano entrambe e facevano rientro a casa.
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