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Salta Martin

Salta Martin

Salta Martin è una tipica espressione veneta, molto sintetica ma che esprime con molta immediatezza il fine per il quale è stata formulata: vuol dire spostarsi da un luogo per occuparne un’altro.
Come ho scritto precedentemente i giorni vicini alla festa di san Martino, vescovo di Tours, ricordato l’11 di novembre, si rinnovavano i contratti d’affitto dei mezzadri e allora succedeva che ci si doveva incontrare tra proprietari dei campi e fittavoli per accordarsi se continuare col contratto precedente o se si doveva modificare in qualche sua clausola con il pericolo di un doloroso cambio di gestione, per cui si dovevano lasciare quelli fino ad ora lavorati e trovarne degli altri da governare per soddisfare alle necessità della famiglia.
Nella casona che si trova nella pagina di inizio vi abitavano delle famiglie che facevano parte quasi tutte dello stesso ceppo di origine, infatti si chiamavano Codogno, hanno occupato questa casa per tanti anni ma poi varie vicende legate anche allo sviluppo rurale dei primi decenni del 1900, al tempo del ventennio fascista venne avviata una consistente opera di bonifica sulle campagne della bassa padovana e della bassa veneziana che arriva fino agli argini dell’Adige dove si trova Cavarzere. Alcuni appartenenti a questa famiglia direttamente interessati a queste opere e a queste grandi trasformazioni, dopo aver scavato con badili e riempito carriole di terra per costruire chilometri di scoli che tagliavano le campagne, che servivano a raccogliere l’acqua piovana che altrimenti le allagava sistematicamente, alla fine ne beneficiavano perché parti di questi appezzamenti venivano assegnati a questi lavoratori e si poteva con questo motivo diventare proprietari di un certo numero di campi.

La casa di questa piccola storia vista dalla corte. La parte sulla sinistra è stata abitata dai nostri protagonisti

Perciò parte di questa casa si stava svuotando ma il terreno da coltivare era sempre lo stesso e così il padrone cercò altre famiglie disposte ad colmare il vuoto lasciato dagli inquilini precedenti. Se gli occupanti avevano salutato con la tristezza nel cuore coloro che se ne erano andati dopo pochi giorni si accorsero che un paio di carretti pieni di roba tirati da cavalli stava facendo capolino sul lungo viale alberato, che dalla strada provinciale “Pratiarcati”, arrivava direttamente nella corte.
Xè rivà i foresti, xè rivà i novi fitavoli”, “sono arrivate le persone nuove, sono arrivati i nuovi fittavoli”.
Intanto c’è da dire che se qualcuno abitava in un paese distante anche solo 10 chilometri dal proprio era un “foresto”, forestiero, per non dire di quello che succedeva con certi paesi solo limitrofi al proprio, quando gli abitanti erano continuamente messi alla berlina per fatti accaduti in quel paese, ma che li marchiavano a vita con continue vessazioni e certe volte anche insulti.
Sono arrivati i forestieri e venivano da Battaglia Terme (ho già scritto di questo posto), avevano lasciato la terra che coltivavano perché di scarso rendimento e stavano cercando altri posti più redditizzi e così sono capitati nelle terre già coltivate dai Codogno. I Piva erano degli sconosciuti ai primi ma siccome venivano ad occupare la stessa “barca” si doveva fare posto anche a loro e così per prima cosa si tirarono su le maniche e tutti li aiutarono a scaricare dai carretti tutta la mobilia che doveva essere sistemata nella parte di casa che gli era stata assegnata e poi dopo aver licenziato i carrettieri con un giusto compenso e un buon bicchiere di vino nuovo ci si doveva aiutare per sistemare alla meglio i pochi mobili appena appoggiati sul “selese”, “l’aia”, per poi trasferirli nelle varie stanze, che in quel momento  erano vuote per la circostanza.
Sedie e tavolo in cucina, i letti nelle camere assieme ai due bauli colmi di biancheria che poi piano piano le donne sistemavano nel piccolo armadio con l’anta a specchio. Il lavello di ferro smaltato con la brocca, “zara” messa di sotto e poi i boccali da notte, “bocae del pisso” da sistemare nelle due camere, piccole con il pavimento di assi di legno.
Una vetrinetta da sistemare in cucina dove mettere le poche pentole di alluminio con l’immancabile paiolo,caliero” per fare la polenta, poi le posate nel cassetto della tavola che appoaggiava su un pavimento di pietre di cotto e per questo traballava su una gamba, ma è bastato poco per renderla più stabile. Le sedie col sedile di “caresin” (erba palustre intrecciata) non erano certo ben messe ma per adesso andavano bene, non si doveva fare altrimenti, se erano poche ci si sedeva sopra la madia “panca“che conteneva un poca di farina bianca per fare il pane.
C’erano comunque tre sacchi di granturco appena scaricati, che doveva essere macinato per fare la farina per la polenta e poi dovevano servire per alimentare i primi polli che si dovevano comprare al prossimo mercato di paese. Nulla più se non la buona volontà di ricominciare una nuova esperienza di vita, in una nuova casa, in una nuova terra che si sperava più redditizia.

Quella sera le donne dei Codogno prepararono una zuppa di broccoli per tutti e anche una grande frittata con la cipolla, una bella polenta mentre gli uomini andarono nella caneva a spillare alcuni  boccali di vino nuovo e questo fu l’inizio di una nuova convivenza tra vecchi e nuovi inquilini. I bambini però rimasero giorni a scrutarsi a vicenda perché questi Piva rimanevano comunque dei “foresti“. Quando un mattino freddo si incamminarono assieme con la borsa della scuola a tracolla qualcuno azzardò qualche parola amichevole ma le risposte tardavano a venire e ben presto anche loro, piano piano ruppero la diffidenza e diventarono amici anche perché non c’era gusto a giocare lasciandoli ai margini solo ad osservare le gare di “pindolo” o trotoeo” “trottola”, o a “morti“, “boccette”. E poi altri giochi ancora come “scondase” “nascondino”, “salta cavaina“, “cavallina” o le lunghe battaglie fatte sulle rive dei fossi a rincorrere ogni sorta di animali che si muovevano tra l’erba per catturarli per farli diventare docili, da compagnia. Rospi, ranocchie, piccoli uccellini e non sempre questo succedeva soprattutto se la loro natura selvatica preferiva la libertà piuttosto della gabbia.

Ormai non ci si ricorda più le date e si deve azzardare che questo succedeva nell’autunno dell’anno 1937, altri tempi.

Le foto sono delle collezioni di Anna Volpin quella all’inizio e Paolo Nequinio quella al centro dell’articolo.
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