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Una insolita vigilia

Una insolita vigilia

A volte succedono delle cose che ti rimangono nella memoria per lungo tempo, ogni tanto le riprendi con la fantasia e vorresti riviverle perché quasi nate da una fiaba.

Come ho già scritto in un altro articolo la mia famiglia si trasferì dalla casa condivisa con gli zii per andare ad occupare parte della casa costruita dal nonno “la casa vecchia“, poi alla loro dipartita da questa terra la casa ce la siamo distribuita secondo le nostre necessità. Intanto i tempi erano cambiati e già da qualche tempo l’avevamo dotata di riscaldamento, di gabinetti e bagni, di pavimenti nuovi ed eliminata la stalla ed il pollaio, che negli anni successivi era stato spostato al piano terra, divennero un magazzino per il negozio dove nel frattempo era stato raddoppiato lo spazio disponibile all’esposizione della merce da vendere, mentre il pollaio era diventa una rustica taverna da usare nei momenti di ritrovo comunitario.

Le scale in legno ripide e cigolanti erano state sostituite da quelle in muratura, le stanze compreso il “granaro” completamente modificate e rinnovate con pavimenti nuovi in linoleum al posto delle assi che aveva messo mio nonno e così consunte che dalle fessure di sopra si potevano vedere le persone che conversavano di sotto in cucina e si potevano ascoltare tutti i loro discorsi. Anche i soffitti di travi erano stati rivestiti da uno nuovo fatto di perline di plastica. Tutto questo lavoro di restauro era stato possibile dai risparmi di mio papà e mia mamma che con passione avevano messo mano alla conduzione del negozio. In questo tempo io avevo raggiunto la maggiore età e guadagnato un diploma di tecnico poi avevo preso pure la licenza di guida dell’auto e così quando ero a casa dal lavoro venivo incaricato di svolgere delle consegne a domicilio. La spesa settimanale presso qualche famiglia, le ceste di pane da portare a casa dal fornaio di Bovolenta, la frutta dal magazzino consueto di Tribano e così via. Nel periodo della macellazione dei maiali il mio impegno diventava più gravoso perché con mio papà e su due auto distinte dovevamo trasferire da una famiglia all’altra le attrezzature necessarie per la macina della carne assieme ad altri oggetti utili al norcino,saeadaro” e anche certi prodotti che servivano alla confezione dei salami, delle sopresse, pancette, come lo spago, la rete per le pancette, il sale grosso e fino, le droghe, ordinate dai clienti. Si facevano chilometri di strada e con un programma piuttosto intenso nel periodo prima di Natale, poteva succedere che qualche famiglia per ragioni di tempo non era riuscita ad uccidere il maiale prima delle feste e così spostava l’evento a dopo.

Se si arrivava a fare questo servizio dopo le feste di Natale il programma era più disteso e quindi anche più divertente perché si aveva il tempo di conversare con le persone riunite per la macellazione e qualche volta ci scappava di partecipare al banchetto allestito durante il lavoro di insaccatura dei salumi. Io dovevo portare tutto il necessario descritto sopra ad uno di questi appuntamenti presso la casa dei Dal Martello di Carrara san Giorgio detta anche “la Mincana“, una bella villa circondata da vigneti da dove ne ricavano dell’ottimo vino.

Quando imboccai il vialetto di sassi non mi immaginavo minimamente di essere accolto da tanto entusiasmo, infatti già da lontano intravedevo le sagome degli uomini che avevavno le maniche della camicia arrotolate sul braccio e appena mi videro cominciarono ad esultare, uno di loro mi dava delle indicazioni forse colpito della mia andatura incerta ma voluta visto che non volevo sollevare un polverone. Appena giunto vicino alle persone riunite e dopo aver parcheggiato sotto alla barchessa mi invitarono a scaricare con una certa celerità la macchina che si doveva usare per macinare la carne che nel frattempo era già stata preparata sopra alla tavola di legno “meioara“; secondo alcuni ero molto in ritardo così spiegai che quel ritardo l’aveva creato il cliente precedente e la lunga distanza che avevo dovuto percorrere, allora gli animi si rasserenarono e con grande sincronismo tutti cominciarono il lavoro che era stato loro assegnato. Sono rimasto ad ammirare quel posto a lungo, la “barchessa”, dove in un angolo si trovava un grande carro tutto in legno e appesa ad una trave una doppietta da cacciatore, c’era pure la fondina piena di bossoli di cartucce, gli stivali accanto al pilastro e la giubba in un altro chiodo davano un tocco di antico, ed anche il fuoco acceso dentro ad una stanza dove stavano lavorando le persone, con le fiamme che si alzavano lunghe, sinuose, di color rosso-arancione mi rallegrarono e mi sembrava di vivere fuori dal tempo reale. Sbirciai per guardare la parte di terreno dietro alla villa e notai il brolo e sotto ad un grande pioppo centenario si trovava una pozza d’acqua dove starnazzavano un bel numero di anatre, germani, oche, una scena unica, poco distante una coppia di cani “da riporto” stava attenta ad ogni movimento che facevano sia gli uomini che gli animali, nel contempo fiutavano continuamente l’aria col desiderio forse di ricevere qualche buon boccone. Improvvisamente mi sono ritrovato a vivere in un altro tempo, più agreste ed infatti non volevo più distaccarmi da quel mondo e dopo aver conversato alcuni minuti con le persone presenti mi stavo rimettendo in viaggio, ma improvvisamente successe qualcosa di assolutamente inaspettato perché da una porticina posta sul retro della villa sbucò una signore che portava un vassoio con sopra una schiera di bicchieri fumanti, non era tè ma vin brulè e poco dopo si aggiunse una giovinetta e nelle sue mani aveva un altro vassoio dove c’erano delle fette di dolce, la “smejassa“. Subito tra me dimenticai gli altri appuntamenti perché non si poteva rinunciare a quell’evento, infatti tutti i presenti compreso il norcino si distaccarono dalle faccende per deliziarsi di tanta bontà, data la circostanza è stata la vigilia dell’Epifania più bella della mia vita.

Ecco la ricetta di questo dolce antico fatto con la farina della polenta e le mele tagliate a pezzi e che tanti anni fa quando imperversava la guerra mondiale veniva fatto con lo zucchero grezzo, quello “moro“, detto “il melasso” e questo perché si razionava tutto, le fabbriche non funzionavano e lo zuccherificio Montesi di Cagnola si era specializzato nella trasformazione della canna da zucchero coltivata in molte campagne dei dintorni. Da qui il nome di un dolce che in giro per il Veneto prende diverse denominazioni ed è realizzato con diverse ricette, tutte frutto della povertà delle famiglie che mai le lasciava tranquille soprattutto in tempo di guerra, è un dolce che racchiude ancora oggi tutta la fantasia, per coloro che vogliono sperimentare le infinite varianti che gli è concesso.

Smejassa ma anche Pinza de pomi così prendiamo dentro tutti.

Smejassadolce tipico dell’Epifania: 250 gr. di farina da polenta, 150 gr. di farina fiore 00, 1 litro di latte, 100 gr. di zucchero (dato che è ritornato in commercio provate a farla con lo zucchero di canna), 100 gr. di uva passa sultanina (se avete la fortuna di aver messo nelle “arele”, le graticole di canna palustre, dell’uva molto dolce come la moscata, la vespaiola, la dorona della laguna di Venezia, raccolta in settembre e lasciata lì ad appassire per fare il vin santo, usate quella), 25 gr. di pinoli, 7 fichi secchi tagliati grossolanamente, 100 gr. di burro o 3 cucchiai di olio extravergine di oliva, la buccia di un arancio ben lavata e tagliata a pezzetti (meglio se trovate quella naturale o almeno senza trattamenti), un pizzico di sale, 2 mele di qualsiasi tipo ma per ogni tipo si deve allora dosare lo zucchero per evitare di renderla troppo dolce, vanno pelate, pulite del torso e tagliate a pezzetti, lievito per dolci la punta di un cucchiaino, un bicchierino di grappa; si può aggiungere della frutta candita, ma soprattutto zucca candita circa 10 grammi o poco più per tipo, solo se la gradite e se vi piace.

Ammollare l’uva passa e i fichi in acqua tiepida per alcuni minuti, poi strizzare e passare il tutto in una tazzina dove c’è la grappa. Mescolare le due farine e versarle a pioggia nel latte già caldo e continuando a mescolare  ottenere una bella polentina, non troppo consistente, aggiungere il burro, lo zucchero e il resto degli altri ingredienti compresa la buccia dell’arancia tagliata a piccoli pezzi, ad esclusione della frutta candita che va aggiunta alla fine. Rimestare sul fuoco per alcuni minuti e poi versare tutto l’impasto in una teglia magari rettangolare e precedentemente unta con dell’olio (in sostituzione dell’olio, potete usare la carta da forno visto che poi le incrostazioni fanno fatica ad andare via. Anche la carta aiuta ma vi evita un’esperienza d’altri tempi, perché alla fine della cottura del dolce e dopo averlo versato dalla teglia, togliere le croste come facevano le nostre mamme o nonne, vi induce a ricordare il loro impegno e la loro soddisfazione), infornate in forno già caldo a 180° per 40 minuti; qui non serve lo stuzzichino perché il dolce è e rimane umido, conta l’aspetto che il dolce stesso vi comunica perché quando formerà sulla superfice un leggera costina dorata a quel punto si può ritenere pronto. Lasciate raffreddare alcune ore in modo che acquisti consistenza altrimenti se lo servite subito si presenta molliccio e poco invitante.

Pinza de pomi (tipica della parte più montana e trentina della regione Veneto): mezzo litro di latte, 200 gr. di farina fiore, un pizzico di sale, 2 mele, 2 uova, poco burro, zucchero quanto basta (anche in questo caso conta la dolcezza delle mele). Lavorate in una terrina le uova con il latte, il pizzico di sale e la farina versata a pioggia e lavorata con una frusta per evitare la formazione di grumi. Pelate, pulite e tagliate le mele a fettine e aggiungetele all’impasto, prendete una teglia da forno ungete con il burro (in alternativa usate la carta da forno) quindi versate il composto nella teglia ricordando che deve fare un’altezza di almeno 2 centimetri. Infornate a 160° per 35/40 minuti e anche per questo vale l’esperienza, una volta tolto dal forno spolverate di zucchero semolato e servite ancora calda. È un dolce che i suoi ingredienti richiamano le creps e manca di uva passa e di fichi che si possono mettere a piacere. Un’altra ricetta fatta con il pane raffermo al posto della farina si chiama Pinza Beca e se andate a scoprire come è realizzata vi farà venire di sicuro l’acquolina in bocca.

Vin brulè: vino rosso corposo e messo in una pentola e poi fatto bollire con dentro alcuni chiodi di garofano, alcune stecche di cannella, delle buccie d’arancia ben lavate e tagliate, dei pezzi di mela e un poco di zucchero, quando l’alcool è svaporato si versa su dei bicchieri a tazza perché se si usano quelli soliti ci si scotta le mani. In certi paesi viene aggiunto anche un bacello di cardamomo verde, una spezia dal sapore e vigore molto esotico.

Con queste ricette tipiche dell’Epifania vi rinnovo gli auguri di un BUON ANNO NUOVO (gregoriano) che sta muovendo i primi passi, tenete presente però che fino all’arrivo di Napoleone l’inizio d’anno in Veneto si festeggiava il primo di marzo mentre in questi giorni si svolgevano i riti tipici del solstizio d’inverno e in questo articolo ho accennato a qualcosa come il fuoco propiziatorio, il dolce povero della smeiassa che voleva dire abbondante fertilità e soprattutto appartenenza ad una certa comunità e le donne ben memori di questa tradizione me l’offrirono quel lontano 5 gennaio di inizio anni ottanta. Mentre per tradizione si preferiva far questo dolce e poi consumarlo presso sette famiglie diverse come segno propiziatorio sulle stagioni a venire e sulla bontà e ricchezza dei nuovi raccolti che, nonostante il gelo stavano spuntando dalle zolle. Il sette inoltre è un numero importante. A un’altra volta però. AUGURI

 

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