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Ea note dee maranteghe

Ea note dee maranteghe

Un nuovo anno è appena cominciato e da subito questo sito vi porta una novità, il titolo dell’articolo scritto in veneto, questa lingua forgiata nei secoli e che oggi si può ascoltare in tanti paesi della terra
E se costoro volessero capire qualcosa di più dei loro antenati, beh! ci possono leggere, ogni volta che  ne sentono la necessità.

Veniamo alla traduzione: “ea note dee maranteghe“, “la notte delle befane” la notte del 5 gennaio quella che porta alla solenne festività dell’Epifania. È una notte propiziatrice perché nelle campagne di una volta si accendevano dei fuochi, come nella notte di san Giovanni (24 giugno), solo che in questa data li accendono per scacciare il buio e il freddo, per risvegliare la terra dal lungo torpore invernale.

La “marantega” è, secondo Espedita Grandesso, una “donna anziana e misantropa, dedita al culto dei morti, possiede un senso luttuoso dell’esistenza ed è portavoce di ogni disgrazia che capiti nel suo raggio d’azione, la si notava durante certe funzioni religiose a stuzzicare qualche malcapitata di temperamento più mite e impressionabile”. Nei nostri paesi non sono sparite e basta ascoltare cosa si raccontano al telefono, meglio definito telefonino, certe donne, sugli anta, in un qualsiasi luogo votato al ritrovo tra anziani, nella sala s’aspetto del medico, nei loro ritrovi domenicali, alle fermate degli autobus, in qualche luogo d’attesa.

E nei nostri paesi di campagna si è dimenticato la sostanza di questa festa che aveva lo scopo di far tornare alla vita la terra addormentata dal gelo dell’inverno. Perciò basta buio costretti alla sera “a far fiò” “il ritrovo” nelle stalle, basta freddo che imbrina la campagna e la tiene ferma, immobile, con le scorte di alimenti che diminuiscono e che ancora non è pronta ad accogliere il seme. Bisognava in tutti i modi poter accorciare l’inverno e far ritornare in fretta la buona stagione e il prima possibile, così si accendevano dei fuochi nelle nostre campagne. E se in giro ci sono ancora le “maranteghe” devono venire a farci visita ma per far del bene alle persone soprattutto ai bambini che non ne possono più del freddo e dei geloni ai piedi, “le bugnasse”, da medicare, causati sì dal gelo ma anche da certe “sgalmare“, le calzature, che a mala pena potevano servire a proteggere i loro piedini intirizziti.

Basta disgrazie, che durante l’anno avevano colpito quella o quell’altra famiglia, del paese, ora devono sparire, per questo si accendevano fuochi, si guardavano le lingue salire verso il cielo e si cercava di indovinare il futuro di ognuno e se le faville andavano di qua o dall’altra parte voleva dire che ci sarebbe stato un anno di abbondanza o di carestia. Carestia parola dura da digerire già vissuta, soprattutto durante le guerre, che aveva colpito intere famiglie dei nostri paesi, con gli uomini a morire di freddo nelle trincee o nelle esercitazioni in montagna. Quanto dolore doveva mai capitare a questa o a quella casa che per fuggirla si è scappati dalla propria terra per andare a lavorare lontano, in Lombardia, in Piemonte, in Francia, in Belgio, in Germania, in Argentina, in Brasile, in Australia. E le “maranteghe” vincevano di nuovo e ridevano con un sorriso sdentato perché nessuno si era sottratto al loro fascino, tutti dovevano pagare, tutti dovevano capire che non esisteva la gioia di vivere.

Così oggi si continuano ad accendere fuochi nei paesi e nelle campagne e sono più spettacolari di una volta anche perché c’è sempre un signore che col microfono tenta di spiegare la sua origine e quasi mai non ricorda che questa notte la si deve vivere in silenzio per ascoltare il rumore delle frasche che scoppiettano, si deve sentire il calore e vedere la luce prodotta dal fuoco che si alza alto nel cielo. La luce e il fuoco fa fuggire il più lontano possibile le “maranteghe” e nessuno vuole più la loro morte, non sono le “strie” “streghe“, bruciate vive un tempo, che possono farti del male, si vuole solo farle fuggire lontano. E poi tutti a scaldarci lo stomaco col vin brulé e una fetta di smeiassa che le donne hanno portato da casa, che hanno cotta sotto la cenere prodotta dal focolare (questo tempo fa), ci si guarda negli occhi resi vividi dai bagliori e pieni di calore ci si abbraccia perché se si è soli è più dura, mentre insieme risulta più facile vivere la vita.

Rifacciamolo quindi perché dopo aver atteso la fine delle fiamme si tornava a casa, dopo averne recuperato i tizzoni di brace accesa, che dovevano dar fuoco alla legna del focolare, in risposta al rito d’inizio dell’accensione innescata dall’anziano del paese che si era portato da casa il tizzone per dar fuoco al mucchio di frasche o di fasce di canne poste al centro della piazza del paese. Le accendeva con l’aiuto di un bambino, perpetuando l’antichissimo scambio di consegne tra le generazioni e alla fine tutti potevano godere nel prendere i tizzoni rimasti scovandoli tra la cenere, come un rito perpetuo da riportare tra le mura di casa, nel luogo consueto e votato alla vita, anche se in molti casi era un casone col tetto di paglia, una umile dimora ma pur sempre quel luogo che accudiva la famiglia. E quando si ritornava a casa la gente intonava canti “Dolce felice notte…“, come diceva David Maria Turoldo: “.. perché allora/ che eravamo poveri/ si cantava?/ Si cantava a sera/ e anche all’alba/ il panettiere cantava/ per le vie deserte./ Camminavamo tra i filari/ nei gloriosi giorni di vendemmia/ e la gioia si spandeva/ a onde giù sulla pianura…/ Ora siamo ricchi/ e muti.

Incontro (inverno)

Un piccolo fuoco
saluta la luna
fora la notte,
rischiara la terra,
ti tiene per mano
ti invita a restare.

E canta una dolce canzone,
piccolo cuore vagabondo.

 

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