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La polenta

La polenta

Gli invasori che provenivano dai regni che si trovavano ai confini orientali dell’Impero Romano avevano lo scopo di annientarlo lasciandosi dietro solo distruzione, così che molte città del Veneto furono devastante e saccheggiate, Treviso, Altino, Aquileia, Concordia, Padova e Chioggia. I loro abitanti per cercare rifugio e protezione si nascosero dai pescatori della laguna dell’alto Adriatico, qui trovarono una ospitalità e un aiuto concreto e riuscirono a condividere con i pescatori ogni sventura, ed infatti quelle persone che vivevano in quelle misere capanne furono veramente ospitali e con condivisione riuscirono a fondare un nuovo centro di vita nel mezzo della laguna su barene di sabbia e canneti. Avevano già sperimentato la stessa esperienza con Marco l’evangelista, sbalzato anche lui da una barca durante una tempesta, curato e confortato prima della sua ripartenza per Alessandria d’Egitto costui li aveva coinvolti in una delle esperienze più importanti della loro storia.

l’isola di Torcello e in fondo l’antica chiesa dell’Assunta

Ciò portò alla nascita di Torcello, Malamocco ed infine Venezia, una città che in breve tempo è diventata la più importante del golfo dell’Adriatico. Con l’accoglienza di queste nuove persone: commercianti, artigiani, banchieri, letterati, si diede origine ad un’incredibile progresso, si avviarono degli scambi commerciali con quei popoli che abitavano sull’altra costa del mare Adriatico. Così che i veneziani impararono a conoscere il mare e diventarono dei bravissimi navigatori raggiungendo porti lontani come quello di Costantinopoli o altri della Grecia, Turchia, dell’oriente e del nord Africa, in questo modo constatarono lo sfascio del regno di Bisanzio e così ne assunsero la sua protezione, presero in dote la sua enorme ricchezza intensificando gli scambi commerciali, portando a Venezia ogni merce che potesse renderla sfolgorante e bella, oltre che ricca e potente e fin oltre il 1500, in un incontrastato potere commerciale, divenne il luogo di scambi per tutta l’Europa che dalle Corti più importanti si recava a Venezia per acquistare le merci che provenivano dall’Asia: Libano, Persia, Egitto, Turchia, India e Cina tanto per citare qualche luogo ed anche da buona parte del nord Africa, ma anche dalla Dalmazia, Grecia, Illiria e altri paesi ancora.

Si vendevano in città tutte le spezie possibili ma anche molte materie prime per il cibo quotidiano, nei fondachi si scaricavano ogni sorta di semente, il grano, l’orzo, il farro per fare le farine, come pure il sorgo, fave, ceci, le lenticchie, poi le droghe dalle isole estreme del mar della Cina, così come ogni germoglio e radice proveniente dai porti egiziani o i vini dolci e aromatici della Dalmazia, Creta, Grecia, Cipro, destinati poi alle sontuose dimore dei nuovi ricchi mercanti, ogni novità veniva sempre ben accolta dai cuochi della città lagunare e poi utilizzata con sapienza nelle cucine della opulenta Venezia per secoli e ben oltre il suo massimo splendore. La vita veneziana scorreva su un alto tenore pur vivendo tra un conflitto e l’altro o tra una pestilenza e l’altra, come sempre riusciva a rialzarsi e ad arricchirsi sempre di più seppure nel primo Cinquecento e verso la fine dello stesso due grandi guerre la segnarono nel profondo tanto da ridurre notevolmente la sua espansione sul mare, il conflitto con la Lega di Cambrai guidata da Massimiliano I d’Asburgo che con le sue milizie era arrivato alle porte di Venezia ai primi anni del secolo e verso la fine la famosa battaglia di Lepanto inscenata contro lo strapotere dei Turchi, vinta ma mai conclusa con una pace duratura. Il Senato della Repubblica stanco e privo di sostegno decide di puntare il suo interesse verso la terraferma da dove poteva trarre ogni sorta di ingrediente da portare in cucina e offrirlo ai suoi comunque ricchi commensali (sono famosi i Convivi dipinti da Veronese). Ma con questa scelta vengono ridotti i commerci verso il mare per stabilirne un nuovo traffico di merci lungo i fiumi del suo Dogado, così venne lasciato quel libero commercio ad altri mercanti provenienti dalla Spagna, Portogallo, Olanda, Francia ecc… Da alcuni decenni ormai le Caravelle spagnole facevano la spola con le Americhe (Indie Occidentali) così iniziarono ad arrivare altri nuovi ingredienti da portare nelle dispense, tra questi dei chicchi di grano che molti chiamavano “maihz”, subito canzonato da un soprannome per definirlo esotico: il granoturco, ma non solo anche il pomodoro, la patata, le zucche e soprattutto il cacao.

il granoturco ancora attaccato al suo gambo

Il granoturco fa la sua comparsa a Venezia pochi decenni dopo il suo arrivo in Italia portato dagli spagnoli che occupavano il Ducato di Milano, in un primo momento fu usato come pianta ornamentale da mettere nei giardini dei cortili, poi quei chicchi bianchi e gialli o rossi e neri, belli secchi vennero macinati così da ottenere una farina che se mescolata con acqua bollita si addensava in una crema ben soda quasi una poltiglia poi tradotta in polenta. I veneziani apprezzarono molto questi chicchi messicani e li seminarono sul terreno aperto in grande quantità soprattutto nelle terre del Polesine rodigino ed anche per merito dei nobili patrizi della famiglia Emo che posero le loro dimore prima nel trevigiano e poi in altri terreni del padovano, li piantarono nelle loro campagne, vicine alle ville che si erano costruite nel frattempo.

Questa farina grossolana poi bollita per circa un’ora nell’acqua creava una crema così sostanziosa che ben sostituiva il pane quando questo veniva a mancare a causa delle frequenti carestie di farina di frumento, farro, orzo, sorgo e spesso razionata, la città di Venezia nel 1550 contava oltre 140 mila abitanti e quando veniva a mancare il pane si generava un bel problema che con l’arrivo della farina di granoturco e quindi della polenta, in parte si risolveva.

Se a certi dispiaceri non c’è mai fine si aggiunse anche un altro fatto a scuotere i veneziani, la bolla del Concilio di Trento che stabiliva i comportamenti alimentari da adottare nei periodi di penitenza come la Quaresima e l’Avvento, dove si dovevano togliere i cibi grassi dalla dieta e tra questi i condimenti come lo strutto di maiale usato per condire il pane, si doveva cuocere con altri ingredienti suo malgrado perciò si seccava velocemente, in alternativa venne sostituito dalla polenta che se ben conservata poteva essere abbrustolita e perciò poteva durare per più giorni e con ciò anche soddisfare alla fame delle numerose persone.

una vecchia macina di un antico mulino ad acqua

I chicchi di granoturco quando venivano macinati o pestati sul mortaio diventavano una farina che mescolata con l’acqua bollente si trasformava in una crema fumante, la polenta appetitosa, dall’inconfondibile profumo e di colore bianco, giallo o più scura, che tutte le massaie potevano ottenere sia coloro che avevano a disposizione un unico misero focolare sia chi viveva nel palazzo e aveva a disposizione una stufa, un altro buon motivo che ha diffuso il suo consumo su larga scala, facilmente preparata a differenza del pane che richiede una più lunga e laboriosa preparazione e cottura.

Per fare la polenta esiste una simpatica ricetta scritta da Carlo Goldoni nella commedia “La donna di garbo” del 1743: – È sera e Rosaura si rivolge ad Arlecchino entrambi affamati; “senti aspetteremo che tutti sieno a letto ed anche quel furbo di Brighella, ch’io non posso vedere, poi pian piano tutti due ce ne andremo in cucina. Io già avrò preparato il bisogno; onde bel bello accenderemo il fuoco, empiremo una bellissima caldaia d’acqua, e la porremo sopra le fiamme e quando comincia a mormorare io prenderò di quell’ingrediente in polvere bellissima come l’oro chiamata farina gialla e a poco a poco fondendola nella caldaia nella quale tu con una sapientissima verga andrai facendole dei circoli e delle linee. Quando la materia sarà condensata la leveremo dal fuoco, e tutti e due di concerto con un cucchiaio per uno la faremo passare dalla caldaia ad un piatto (…)”, anche ai giorni nostri la facciamo così solo che nell’acqua ci mettiamo un pugnetto di sale grosso. Piano piano mettiamo la quantità di farina che l’acqua chiede al bisogno, più farina si mette e più diventa consistente, si deve ottenere una crema morbida e cuocerla per una mezzora o poco di più, occhio ed esperienza aiutano molto per riuscire a rimediare nel caso di qualche imprevisto, se abbiamo messo troppa farina, si può aggiungere dell’acqua tiepida al volo e lo stesso vale se la vediamo troppo tenera, allora si fa il contrario; dopo la cottura si versa la polenta sopra ad un grande tagliere “el tavoliero dea poenta”, di legno tondo e usato solo per questo scopo in modo da poterla ammirare come fosse un sole d’oro o una luna piena.

La polenta calda per chi vuole, può essere arricchita come nella commedia di Goldoni con formaggio, funghi, cotiche, o altro ancora ma di consueto si taglia a fette e si mangia con quei piatti che abbiamo già preparato, mentre il giorno dopo tagliata a fette viene abbrustolita sul fuoco, molti la preferiscono condire con dei piatti ricchi di sughi come lo spezzatino di carne in umido “ea carne in tocio”, il pollo in umido, ma diventa la regina col il baccalà realizzato nelle ricette più varie, come pure con i piatti di pesce arrosto, fritto o al forno.

Polenta e fagioli, poenta infasoeà: 300 gr. fagioli secchi, 300 gr. farina di mais gialla, sale.

Mettere in ammollo i fagioli la sera prima e poi mettere la stessa pentola sul fuoco per cucinarli, farli bollire per almeno un paio d’ore, o fino a quando i fagioli sono cotti ma non troppo, scolarli con un colino e metterli da parte, sulla stessa acqua aggiungendo per arrivare alla quantità desiderata cucinare la farina fatta scendere a filo e mescolandola con una frusta per almeno 25 minuti poi si buttano dentro i fagioli e si continua a mescolare per cuocere i fagioli e la polenta per altri 15 minuti infine rovesciarla sul tagliere tondo. In alternativa o in aggiunta ai fagioli si possono mettere, zucca lessa, cipolla appassita in acqua e olio, fave lesse, lenticchie lesse, funghi già cotti, se si vuole si può provare con il formaggio stagionato, di varia natura come il Vezzena, il pecorino, grana, l’Asiago stravecchio.

Polenta, sbrise (funghi orecchioni) e stracchino: per la polenta, si mettono in una pentola 4 litri d’acqua da portare ad ebollizione, aggiungere un piccolo pugno di sale grosso e poi a pioggia far scendere la farina da polenta gialla circa 300 gr., rimestando con una frusta in modo da impedire la formazione di grumi, è molto importante che resti morbida, si cuoce per 45 minuti rimestandola ogni tanto per evitare che si attacchi al fondo della pentola, alla fine si versa sul tagliere.

Poi si prendono le sbrise che abbiamo cotto in precedenza e le mettiamo sopra alla polenta al centro e tutto attorno delle fette di formaggio stracchino, a raggiera, così si ammorbidisce e la insaporisce tutta, quindi si serve in tavola, a turno con un cucchiaio ognuno si prende la sua razione e vicino al piatto ci mettiamo una ciotolina di sbrise calde da aggiungere conferendo al nostro piatto un buon gusto.

Polenta e zucchero, poenta e sucaro: preparare la polenta come descritto e usatela per i piatti che avete sul tavolo, se ne avanzate delle fette le potete tagliare a dadini, si friggono su una padella dove ci abbiamo fuso del lardo o dello strutto, le tirano fuori e si rotolano sullo zucchero semolato, si mangiano come dessert.

Ma il dolce più conosciuto realizzato con la farina di mais è la Pinza o come la conoscono molti la Smejassa, un dolce invernale tipico dei giorni natalizi.

Smeiassa, dolce tipico dell’Epifania: 250 gr. di farina da polenta, 150 gr. di farina fiore 00, 1 litro di latte, 100 gr. di zucchero (dato che è ritornato in commercio provate a farla con lo zucchero di canna), 100 gr. di uva passa sultanina, 25 gr. di pinoli, 7 fichi secchi tagliati grossolanamente, 100 gr. di burro o 3 cucchiai di olio extravergine di oliva, qualche frutto candito, un pizzico di sale, 2 mele sode e del tipo poco dolci, vanno pelate, pulite del torso e tagliate a pezzetti, mezza bustina di lievito, un bicchierino di grappa; della zucca candita se potete averla, se la gradite e se vi piace.

Ammollare l’uva passa e i fichi in acqua tiepida per alcuni minuti, poi strizzare e passare il tutto in una tazzina dove c’è la grappa. Mescolare le due farine e versarle a pioggia nel latte già caldo e continuando a mescolare ottenere una bella polentina, non troppo consistente, aggiungere il burro, lo zucchero e il resto degli altri ingredienti, ad esclusione della frutta candita che va aggiunta alla fine. Rimestare sul fuoco per alcuni minuti e poi versare tutto l’impasto in una teglia magari rettangolare e precedentemente unta con del burro, infornate in forno già caldo a 180° per 40 minuti; qui non serve lo stuzzichino perché il dolce rimane umido, conta l’aspetto perché si può ritenere cotto quando si formerà sulla superfice una costina dorata. Lasciatelo raffreddare alcune ore in modo che acquisti consistenza altrimenti se lo servite subito si presenta molle e poco invitante.

sagra del pescegatto a Mossano (VI)

La polenta è inoltre usata al posto del pane nelle feste e nelle sagre paesane, infatti viene accompagnata ad ogni pietanza proposta, sia essa una grigliata di carne, del pesce fritto o il baccalà. L’unica festa dove non viene portata in tavola è la “Festa del pesce” che si fa a Chioggia e Sottomarina all’inizio dell’estate, al posto della polenta viene consegnata una porzione di bussolà, sono delle ciambelline di pane biscottato.

Ai piatti con molto sugo e polenta si abbinano molto bene i vini tipici del Veneto sia i Bianchi che i Rossi corposi, per i dolci di farina di mais ci vogliono vini profumati, morbidi, dolci, sia giovani che invecchiati qui potete trovare qualche spunto e se proprio volete un nostro parere si può scegliere un Recioto della Valpolicella, il Moscato dei Colli, il Malvasia e il Vespaiolo spumante di Breganze, come pure il Serprino o il Prosecco.

Per scrivere l’articolo ho cercato delle informazioni sul libro “Origini e storia della Cucina Veneziana” di Giuseppe Rosato, Dario de Bastiani, editore; Atlante Storico della Serenissima, Giovanni Distefano, Supernova editore.

Le fotografie sono dell’archivio di Paolo Nequinio.

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