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25 aprile san Marco

25 aprile san Marco

S an Marco è il patrono di Venezia ma la storia ci ricorda che prima di lui c’era san Teodoro e poverino venne sostituito dall’evangelista perché nel 829 dopo Cristo due mercanti veneziani, Bono da Malamocco e Rustego da Torcello, riuscirono a trafugare le spoglie del santo dalla città di Alessandria d’Egitto prima che fossero disperse da chi si era insediato in quel paese.

I due coraggiosi marinai dopo aver trovato dentro ad un sarcofago la cassa che la tradizione affermava contenesse il corpo di san Marco la traportarono nella loro barca dopo averla ricoperta di carne di maiale in modo da eludere la dogana egiziana che la considerava impura e perciò intoccabile.

Subito partirono per Venezia per farne dono al doge Partecipazio che occupava la carica in quel periodo e appena sbarcati vennero accolti da grandi festeggiamenti perché il santo era da sempre sentito compartecipe della vita dei Veneti ed anche un intercessore importante dei momenti difficili.

Molti di loro infatti si ricordavano della profezia che l’evengelista aveva raccontato diversi secoli prima quando era venuto a nominare il primo vescovo di Aquileia, Ermagora, quando rimase per molto tempo a raccontare le avventure di Gesù di Nazareth, le stesse che lui stesso stava raccogliendo in un bel resoconto che poi sarebbe diventato uno dei quattro vangeli riconosciuti dalla Chiesa Cattolica.

Marco quando era bambino si trovò a vivere in una casa del centro di Gerusalemme, che arrichita di un grande giardino, ricco di ulivi, scelto dal Messia per fare le sue frequenti meditazioni, compresa l’ultima, quella precedente alla sua cattura. Il giovinetto Marco, molto probabilmente era presente e lo racconta nel suo diario, poi dopo la morte di Cristo la sua casa divenne il rifugio dei discepoli che si nascondevano per paura di essere a loro volta condannati alla stessa pena del loro Messia. Pietro sin dall’inizio riuscì a capire il grande animo semplice di Marco e così decise di portarlo con se nelle predicazioni che faceva per la Palestina e poi anche quando si trasferì a Roma. Il giovinetto divenne il segretario e lo stenografo di Pietro e visse le mille storie che capitavano nella capitale dell’impero romano al tempo delle prime predicazioni. Un giorno Marco venne inviato presso i popoli Veneti che chiedevano una figura autorevole per dare loro un nuovo impulso agli sviluppi umani e sociali che vivevano, infatti negli anni alcune comunità di credenti si erano sistemate lungo le coste dell’alto mare di Adria ne favorirono la formazione di nuovi gruppi solo che si sentivano sperduti e aiutati solo dalle scarne notizie che arrivavano dall’oriente per via dei traffici commerciali che già si facevano a quel tempo.

Marco fu accolto con grande calore nella bella basilica di Aquileia e poco dopo scelse il nuovo vescovo come aveva promesso al suo arrivo, una persona indicata da loro. Ma dopo un certo tempo, assalito dalla nostalgia per la sua comunità di Alessandria d’Egitto, Marco decise di ripartire per farvi ritorno, ma una tempesta costrinse le navi a riparare dentro la laguna adiacente a quella di Grado dove rimasero ferme per diverso tempo. Anche in questa circostanza a dir poco provvidenziale, lui si trova a raccontare tutte le vicende capitate a Gerusalemme al tempo della sua giovinezza. Le persone di quel posto erano degli umili pescatori ma ben si sentivano coinvolti con gli altri pescatori della Palestiana divenuti più tardi i discepoli di Gesù. Si innamorarono delle avventure ascoltate anche se non erano sempre di facile attuazione e così non volevano farlo ripartire per rimandarlo in Egitto ed una notte, un angelo apparve in sogno a Marco dicendogli queste parole “Pax tibi Marce evangelista meus”, “Pace a te Marco, mio evengelista” e poi gli disse che in quelle terre ci sarebbe stata la sua ultima dimora terrena. Marco assieme agli altri marinai dopo un certo tempo ripartì da quegli isolotti di laguna e arrivò ad Alessandria d’Egitto e pochi anni dopo trovò la morte per martirio, immediatamente furono trascritti tutti gli appunti che aveva raccolto e da questi nacque quel semplice libro in 14 capitoli chiamato il vangelo di Marco ancora oggi letto e meditato durante le cerimonie religiose di tutto il mondo cristiano. Alla sua morte seguì la sepoltura, ma anche la profanazione del suo corpo, così i due veneziani lo presero per riportarlo presso le genti che lo salvarono dal naufragio, ricevendo in cambio la buona novella sulla vita di Gesù.

Il doge Partecipazio avvertito per tempo dell’arrivo delle spoglie dell’evangelista Marco fu subito caricato di entusiasmo e subito diede ordine di realizzare un luogo dove depositarle, solo che appena iniziarono le consultazioni per stabilire l’ubicazione di questa nuova cappella cominciarono anche delle forti dispute perché c’era chi la voleva a Torcello sede dell’inizio della vita di quella comunità di credenti ma c’era anche chi la voleva a Castello sede del nuovo patriarcato dopo la soppressione di quello di Grado in lotta con quello di Aquileia, ma c’era pure chi la voleva a Malamocco sede del governo di quel periodo e anche in questo caso venne presa una decisione provvisoria e in seguito quella più definitiva. È il doge Vitale Falier che riceve come eredità la realizzazione di questa nuova chiesa che doveva contenere le spoglie di san Marco e in un sogno immaginò il luogo della futura ubicazione della nuova basilica solo che faceva fatica ad individuarla nelle decine di barene da poco occupate di fuggitivi della terraferma, scappati dalla furia assassina degli slavi e germanici. E così il doge, un bel mattino, liberò una colomba bianca e la seguì nel suo tragitto perché dove si sarebbe posata quello era il luogo prescelto ed è lo stesso dove noi possiamo ammirare la bella basilica in stile bizantino, orientale. Iniziarono i lavori della “cappella Ducis” e in pochi anni furono completati solo che il doge precedente non aveva lasciato nessuna indicazione esatta del posto dove aveva messo le reliquie del santo, che in buona fede aveva ben occultato, per paura di vederle trafugate dall’imperatore longobardo che si era spinto fino all’isola di Torcello per trovarle. Si decisero di indire tre giorni di digiuno e preghiera ai quali tutta la popolazione doveva partecipare e uno di questi giorno, nel bel mezzo di alcuni lavori di sistemazione, una colonna rovinò a terra spaccandosi e facendo emergere dal suo interno il reliquiario che conteneva quel che rimaneva del corpo di san Marco. Terminato il triduo di preghiere, iniziarono dei grandiosi festeggiamenti culminati con una festa durata per parecchi giorni. Anche il governo della città si trasferì a fianco della basilica, perché a motivo della provvidenza, Rivoalto aveva trovato il suo santo protettore e ne divenne un simbolo da portare dappertutto sin dove l’espansione degli interessi dei Veneti stava arrivando. Da questo tempo infatti si comincia a parlare di Venezia come della capitale di questa nuova Repubblica, chiamata anche Repubblica di san Marco.

Il leone di san Marco ben presto venne esposto nelle insegne, nei sigilli, nei documenti, nei vessilli, in tutte quelle icone usate dal doge e il suo governo ne esaltava la Repubblica, un simbolo, nel bene e nel male, così vivo che ancora oggi lo vediamo rappresentato sopra alle porte antiche di ingresso delle città della Serenissima quelle sotto al suo dominio, lo vediamo sopra alle colonne poste sulle piazze di alcune città, quelle che proclamarono la loro fedeltà, un segno perpetuato nel tempo ma anche un simbolo che racconta gli spunti d’intesa che l’avevano legata alla Dominante. Emblematico infatti è il leone della piazza di Rovigo che ha la coda tra le gambe, perché le alterne vicende di quella città stabiliscono il suo acquisto, dopo le furiose battaglie avvenute nel suo territorio dopo alterni cambi di fronte. L’altro leone di san Marco con l’espressione che la dice lunga è quello della porta di Chioggia che ci fa vedere con evidente crudezza le sue fauci quasi a dire ti ho conquistata dopo la guerra del sale avvenuta nella metà del Trecento, una cruenta battaglia tra veneziani, carraresi e genovesi, risolta a favore dei primi. Nel Quattrocento iniziarono anche l’espansione verso i territori occupati dai Carraresi, Visconti, Sforza, della Scala, Estensi, francesi, spagnoli, fino ad arrivare alle porte di Milano dove vi rimasero per diversi secoli, poi piano piano anche la Repubblica, amata dal suo popolo e odiata dai suoi vicini, cominciò a perdere pezzi di territorio a scapito di invasori francesi. Oggi però possiamo affermare che san Marco usò bene il suo patrocinio perché la Venezia che conosciamo è testimonianza di una storia durata quasi un millennio e senza particolari contraccolpi retta da dogi di elevata statura come pure da incapaci, ma governata sempre da uno spiccato senso democratico, partecipato e sostenuto da tutto il popolo che ne ha garantità la longevità.

La festa di san Marco è il 25 di aprile, ad un tempo lo si festeggiava anche il 31 di gennaio ed è sempre stata vissuta con solennità, con processioni in piazza e feste in Palazzo Ducale, anche in molti luoghi della città come in tutta la Repubblica. E se nella capitale lo sfarzo era d’obbligo nelle campagne dove si trovava la villa del signore, come pure nel piccolo paese dove arrivava il dominio della Serenissima, ci si arrangiava come si poteva. A noi ci è giunta la festa tradizionale da vivere all’aperto scegliendo un prato di un’argine di fiume o la riva di un campo, con lo scopo di perpetuare l’accoglienza riservata a quel Marco, scampato dalla morte per naufragio quando si stava recando ad Alessandria d’Egitto. Si festeggia preparando il più umile pasto che in quel tempo potevano offrire quei poveri pescatori che l’accolsero a casa loro e nel bel mezzo di una tempesta, che impediva loro di uscire in mare per pescare del pesce da preparare agli ospiti, una bella frittata di uova fresche appena raccolte da qualche nido di uccello palustre e profumata dalle erbe appena raccolte nelle barene.

Anche noi quindi raccolgliamo le uova dal pollaio per fare delle belle frittate, col desiderio di essere protetti e benedetti dal santo per tutto l’anno a venire, sia nelle colture, che in famiglia.

La frittata la si può condire con la cipolla tritata finemente o con qualche erbetta di campo raccolta nel luogo scelto per la scampagnata; eccovi la ricetta di quella con i bruscandoli (germogli di luppolo): uno o due uova per commensale, un bel ciuffo di bruscandoli freschi, olio extravergine di oliva, sale e pepe, uno spicchio di aglio.

Scegliere un luogo adatto per fare la frittata: un ciglio di campo, il luogo più lontano dalla casa, un argine di fiume, le colline dei dintorni, vi ricordo che nelle ville veneziane di campagna si sceglieva la “giassara”, la ghiacciaia, una piccola collinetta sempre ricoperta di alberi che molto spesso sulla sommità aveva una torre e il suo interno cavo, serviva a raccogliere e accatastare il ghiaccio recuperato dal laghetto poco distante, quando si ghiacciava in inverno, serviva così da frigorifero durante la stagione estiva perché al suo interno si depositavano le provviste di prodotti deperibili che altrimenti le alte temperature facevano marcire.

Si accende un fuoco prendendo della legna raccolta sul posto, lo si governa per creare un bel po’ di braci e poi si portano in un improvvisato focolare dove sopra a delle pietre ci mettiamo la padella unta d’aglio e con la cipolla e i bruscandoli tritati finemente che facciamo rosolare con poco di olio. A parte si battono le uova incorporando il sale il pepe e altri tre cucchiai di olio di oliva e poi le versiamo sui bruscandoli, le facciamo cuocere per bene; quando sono pronte si fanno le parti o come quando non c’erano le stoviglie, si intinge tutti assieme sulla padella con delle fette di pane o polenta che a parte abbiamo abbrustolito. È chiaro che se la compagnia è alquanto numerosa bisogna turnare la preparazione della frittata facendo anche diverse cotture, teniamo presente comunque di pulire per bene la padella altrimenti l’olio bruciandosi può creare un cattivo sapore alla frittata successiva, oppure si porta una padella molto grande e più adatta a fare la frittata della grandezza utile a soddisfare tutti.

Va bene inaffiarla con del vino Bianco, Verduzzo, Pinot Grigio, ma anche un rosso, molto buono, “da festa”, il Bardolino, il Valpolicella, il Raboso. Aggiungo infine, l’intuizione di qualche componente che tira fuori dal cestino altre provviste facendo materializzare sulla tovaglia distesa, una sopressa, un salame o magari un bella coppa, “ossocollo” e poi un tagliere per essere affettate e accompagnate da alcuni bussolà di Chioggia, il tutto innaffiato da buon vino Rosso, così da elevare un semplice banchetto sul prato in una vera festa “de Doge”.

Le foto presenti in questo articolo sono delle rispettive collezioni: Rebecca Adalgisa e Anna Pezzin
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