Carnevale
Il periodo dell’anno che va dal 17 gennaio, festa di sant’Antonio abate, al martedì prima delle “Ceneri”, è Carnevale, almeno qui da noi nel Triveneto ma in special modo a Venezia.
Nella Venezia medievale l’inizio del carnevale cominciava con la festa di santo Stefano, il 26 di dicembre, per ricordare il transito delle relique del primo martire cristiano trasferito da Costantinopoli alla chiesa di san Giorgio Maggiore, posta nell’omonima isola di fronte al molo di san Marco. Ogni pomeriggio del 26 dicembre il doge si recava nella chiesa di san Giorgio partendo dal molo di fronte a Palazzo Ducale e con un seguito di barche tutte illuminate con fiaccole arrivava all’isola e poi entrava nella chiesa illuminata da centinaia di candele e si fermava per qualche tempo assieme a tutto il governo, infine rientrava a Palazzo Ducale e dava inizio ad un banchetto che durava fino a notte fonda. Questo era l’inizio del periodo di giubilo detto del carnevale, manifestazioni, commedie teatrali, gare di abilità (corsa delle carriole), momenti di beneficenza (la “festa delle Marie“, per esempio) e con la sentita partecipazione di tutta la città con innumerevoli banchetti, dove ricchi e poveri potevano accostarsi senza particolari divieti.
Ma per capire meglio conviene partire dall’inizio quando le feste di Carnevale ebbero il suo inizio; naturalmente come avvenne per altri avvenimenti tutto partì da una disputa, tra patriarchi, quello di Grado e di Aquileia. Alla disgregazione dell’impero romano e alla divisione dello stesso in due patriarcati, quello di Roma e quello di Costantinopoli (odierna Istambul), c’erano anche da amministrare tutti i territori ad essi collegati, Venezia per praticità e per convenienza scelse in prima istanza di stare con Roma e con lei il patriarcato di Grado che dopo l’anno mille si allargò dal nord di Venezia fino a tutta la Dalmazia occidentale. Il patriarca di Aquileia non accolse con favore questa espansione e decise di fare guerra al suo vicino e costrinse lo stesso patriarca di Grado, Enrico Dandolo, a riparare a Venezia. La città aveva ormai una storia consolidata di 250 anni e quindi ogni affronto lo sistemava senza troppo attendere e così organizzò una spedizione punitiva nei confronti del patriarca di Aquileia e dopo pochi giorni lo portarono in catene nella sala del Senato della Repubblica, assieme ai suoi dodici canonici. Furono condannati dalla giustizia di quegli anni e per un senso di interesse che già si stava radicando dentro le istituzioni veneziane che faceva prevalere il buon senso rispetto al dispetto, emise una pena esemplare nei confronti del patriarca e i suoi dodici canonici, la consegna perpetua di un toro e dodici maiali e tale pena pecuniaria doveva essere effettuata nel mese di febbraio di ogni anno dalla data della trascrizione. Ecco l’origine del nome Carnevale che vuol dire in latino “carnem laxare“, e in veneto “carne levare – i me ga tolto ea carne” questa l’imprecazione detta dai canonici seguita da improperi di ogni tipo. Gli animali arrivavano per nave e poi venivano portati sul sagrato dell’allora sede del patriarcato di Venezia che si trovava a Castello e qui seguiva il rito della macellazione dove alcuni uomini scelti, tutti mascherati e protetti da costumi che richiamavano i vecchi stregoni, più per sarcasmo che per ritualità religiosa, uccidevano le bestie appena arrivate e poi le dividevano in tanti pezzi che poi dovevano imbandire vari banchetti e si doveva far festa lungo tutta la strada del quartiere di Castello e anche sulla riva del molo, con tutta la cittadinanza presente sia di alto rango che popolare; così è nato il “Giovedì grasso“. Ricchi e poveri a tavola insieme senza distinzione di classe, però questo interminabile banchetto offriva a qualche furbo, pure lui mascherato, di far parte tra quelli che erano stati selezionati per la distribuzione della carne, ecco allora la nascita della maschera di Arlecchino, il povero servo del padrone Pantalone, il primo sempre affamato, pronto a qualsiasi sotterfugio pur di addentare qualcosa, il secondo avaro e restio a qualsiasi condivisione di ogni sua sostanza, maschere poi trasferite nella commedia dell’arte teatrale e riprodotte fino a oggi in tante commedie di tutto il mondo.
Da qui in poi molti “foresti” che passarono nella Venezia che stava diventando regina dei commerci e perciò una importante potenza economica, traevano beneficio dagli eventi che si facevano, a tal punto da esportarli assieme alle merci appena comperate.
Il carnevale oggi si vive in tutto il mondo e ha assunto le sfumature tipiche della nazione che lo rappresenta come quello brasiliano di Rio de Janeiro, tutto colori, piume, lustrini, sontuosità e molto spesso maestosità di costumi e corpi addobbati di solo oro e argento (da loro si sa è estate e fa caldo e ogni trasgressione è possibile), non che a Venezia non si facessero certe stravaganze anzi, molto spesso il Senato è stato costretto a promulgare delle leggi che vietavano la troppa pomposità delle maschere per evitare la rovina di certe famiglie che per apparire in piazza erano disposte a qualsiasi sacrificio, soprattutto economico.
Per molti giorni feste e banchetti in ogni angolo della città e poi i rintocchi, allora come oggi della “campana de martignon“, la campana del “Martedì grasso“, suonava e suona a mezzanotte dell’ultimo giorno di carnevale (quest’anno il 17 febbraio), suonava a morto perché tutto finiva in quel giorno, si sentiva in tutta la città e i suoi rintocchi ponevano fine ai bagordi, alla baldoria sfrenata, alla gioia e alla festa e tutti accorrevano ad assistere alla vogata sul Canal Grande, un lungo corteo funebre di barche illuminate da ceri dove i vogatori erano addobbati da “ciapa morti” e scivolavano sulle acque scure del canale in silenzio, infatti ancora oggi si chiama “la vogada del silensio” e alla vista delle barche si diceva “ea campana de martignon, tin, ten, ton” (ancora oggi nei nostri paesi quando si sentono i rintocchi che ci avvisano della morte di una persona si dice “ecco che sona ea campana de martignon“) e poi tutti a casa a smaltire la sbornia perché il giorno dopo è Quaresima e si deve fare astinenza e digiuno e si deve mangiare di magro.
Ma prima della stretta quaresimale mangiamoci qualcosa di dolce e infatti eccovi due ricette di dolci di carnevale:
Castagnole: 500 gr. di farina fiore, 3 uova, 6 cucchiai di zucchero, 6 cucchiai di latte, 6 cucchiai di olio extravergine di oliva, una puntina di lievito in polvere, 200 gr di uvetta sultanina, 1 bustina di vaniglia, 1 buccia di limone, sale, strutto oppure olio per friggere, zucchero a velo.
Sbattere le uova con lo zucchero e quando è ben sciolto aggiungere il latte, l’olio, e un pizzico di sale. Amalgamare bene, quindi si aggiunge l’uvetta, già fatta rinvenire in acqua tiepida e le farina, impastare a lungo con le mani. Incorporare la vaniglia, la rapatura di un limone, e il lievito e continuare a lavorare l’impasto. Lasciarlo poi riposare mettendolo in un luogo tiepido e ben coperto, poi passato un certo tempo, non lungo, prendere l’impasto e fare tutta una serie di cilindretti che vanno tagliati a pezzetti e con il pollice si schiacciano un poco per dare una forma di castagna ed infine le prendi poche alla volta e le fai friggere in abbondante olio o strutto (dipende dalle opportunità che avete di reperire lo strutto e dai gusti del risultato finale) bollente. Appena si vede che sono cotte e ben dorate si scolano velocemente e si mettono sopra ad una carta assorbente per togliere l’olio in eccesso e poi si passano in un vassoio e si spolverano di zucchero a velo. Si combinano molto bene con un tè molto aromatico, oppure con il vino Torcolato di Breganze vecchio di almeno 3 anni. C’è chi le accompagna con dello spumante secco ma per me si creano troppi gusti a contrasto.
I crostoli o galani veneziani: 300 gr. di farina, 60 gr. di zucchero semolato, 2 uova, 60 gr. di burro, 1 bicchierino di grappa, qualche cucchiaiata di latte, un pizzico di sale, olio o strutto per friggere, 50 gr. di zucchero a velo o vanigliato.
Versare a fontana sulla spianatoia la farina setacciata con il sale e nel cratere versare le uova e il burro ammorbidito, lo zucchero semolato, il latte e la grappa. Lavorare bene il tutto con le mani e molto a lungo fino ad ottenere un impasto totalmente omogeneo, liscio e molto morbido. Tirare l’impasto con il matterello creando una sfoglia sottilissima, poi tagliala con una rotella dentata a losanghe o rettangoli o a nastri che annodate a coppie. Su una padella larga scaldare abbondante olio per friggere o strutto (qui vale il consiglio dettato sopra) e quando ha raggiunto il bollore si immergono i crostoli pochi alla volta cercando di non far prendere troppo colore, scolarli velocemente con una schiumarola, metterli sopra a della carta assorbente e lasciarli per qualche minuto, poi passarli in un vassoio e spolverizzarli di zucchero a velo o vanigliato. Servire con del Torcolato di Breganze oppure con un moscato dolce dei colli vicentini, si possono accompagnare anche con del vino Fiori d’arancio dei colli euganei, non rifiutano comunque il tè aromatico addolcito con del miele d’acacia o miele di barena ultima mia recente scoperta.
Devo immediatamente rimediare ad una svista che qualcuno mi ha fatto notare ed è tutta territoriale perché: “in un paio di articoli hai legato le vicende del territorio ai suoi straordinari prodotti e perché non hai messo vini del Friuli su questo articolo visto che parli di due città friulane?” E allora devo rispondervi così cari amici di questa bellissima regione “in Friuli non abbiamo ancora avuto delle adeguate documentazioni e vi promettiamo che lo faremo, dato che in questo articolo si parla di due cittadine friulane bellissime, Grado e Aquileia, allora io vi propongo di abbinare i due dolci tipici del carnevale, la castagnole e i crostoli, con i vini friulani Picolit e Ramandolo due bianchi che vi sorprenderanno, mentre se volete un vino bianco dal sentore fruttato e che ben si combina con questa pasticceria fatta in casa, va bene il Verduzzo, spero che siate felici della scelta.