Cativi come ea peste
L’estate era la stagione giusta per vivere intensamente all’aria aperta, i suoi giorni caldi e lunghi favorivano il gioco con delle sfide infinite. Le lezioni scolastiche erano sospese per le vacanze e ai bambini era concessa ogni possibilità di svago, dai giochi più banali come correre e ricorrersi per prendersi, acchiapparsi e anche inseguire un cerchio lanciato lontano con un bastoncino, poi c’erano le sfide a squadre inventate a proposito, di calcio, biglie di terracotta, salta cavallina e così via.
Nelle grandi case di una volta ci vivevano molti bambini perché più famiglie convivevano assieme, delle leggi fasciste oltre tutto favorivano la procreazione e premiavano le famiglie numerose, così nuvole di fratelli e cugini coetanei se non quasi si rincorrevano in cortile, tutti in egual modo chiassosi che sfuggivano o si coalizzavano per generare ogni pur piccola gara a chi faceva meglio quella tal cosa e qualche volta si scappava piangendo quando certi scherzi avevano un impatto troppo forte. Le bambine si mettevano sotto l’ombra della grande pianta a vestire e rivestire con pezzi di stoffa recuperata qua e là delle bamboline realizzate con le foglie del granoturco o più belle se realizzate in legno scolpito e poi colorate da un adulto bravo a dipingerle.
Alcune volte si dovevano inventare dei giochi nuovi e se non si aveva molta esperienza anche rischiosi: eccovi uno di questi ricordi di un anziano amico che lo aveva vissuto da protagonista. Un giorno ci siamo allontanati dalla corte di casa per raggiungere un fossato di scolo che si trovava non molto distante da casa, e qualcuno dopo essersi tolto i vestiti decise di buttarsi nell’acqua a sguazzare, assieme ai fratelli più grandi si unì pure uno dei più piccoli solo che non si accorse della vera profondità dell’acqua e appena entrato nell’acqua cominciò ad annaspare e incapace di risalire, spaventato non aveva la forza di chiedere un aiuto così cominciò ad affondare, gli altri ridevano perché credevano ad uno scherzo e non capivano la gravità del pericolo che stava correndo il loro fratello ed infatti ad un certo punto scomparve tra le acque limacciose.
Non ci diedero peso e continuarono a schiamazzare dentro allo scolo, ma una delle sorelle poste sulla riva cominciò ad urlare perché si era resa accorta della scomparsa del fratello così tutti risalirono in fretta per rivestirsi altri lo cercarono mentre si trovava adagiato sul fondo del canale e lo tirarono a riva che era ormai esanime intanto uno di loro corse subito verso casa a chiamare la mamma la quale di corsa si avviò al campo vicino per chiamare il marito e insieme si recarono presso lo scolo e trovarono il loro figlioletto più morto che vivo e subito cercarono di rianimarlo, la madre non riusciva a trattenere le grida che erano fortissime quel tanto che altri componenti della famiglia si erano avvicinati al luogo della disgrazia. Qualcuno corse in paese per avvisare sia il medico che il prete e già prevedevano la tragedia, ma quando giunsero nei pressi della riva del fossato appresero che le manovre per rianimare il bambino erano riuscite infatti cominciava lentamente a dare dei segni di ripresa così il medico consigliò di prenderlo in braccio e di portarlo a casa dove poteva visitarlo con più attenzione, lo adagiarono sopra ad un tavolo e cominciarono a massaggiarlo con dolcezza per riscaldarlo così piano piano riaprì gli occhi e sorrise a malapena, intanto il medico gli fece una accurata ispezione per stabilire se aveva respirato molta acqua e alla fine rassicurò tutti perché non era compromessa la sua vita. La mamma intanto aveva radunato tutti i partecipanti dell’avventura che per poco non si trasformò in tragedia e cominciò così: “sii tuti pestiferi, cativi e bruti come ea peste e guai se sento na sola parola, pestiferi”, “siete tutti dei pestiferi, cattivi e brutti come la peste, e guai se sento parole di discolpa perché siete come la peste”. Nessuno fiatò ma neppure aveva capito il significato di quelle parole risultava molto chiara una cosa che la peste doveva essere senz’altro una delle esperienze più terribili che ci poteva capitare, infatti di lì a poco arrivò il resto della ramanzina perché di seguito furono elencate le punizioni da patire e per fortuna che non erano di tipo corporale ma bensì dovevamo assolvere a dei compiti non proprio adeguati ai bambini e ubbidire a quanto detto per evitare le sculacciate che sarebbero state più che giuste.
L’altro episodio che qui ricordiamo volentieri ha una trama più ironica e comincia così: era un pomeriggio d’estate e anche stavolta ci siamo allontanati dalla corte per andare a scoprire altri luoghi distanti da casa. Prima però si doveva assegnare il titolo di capo spedizione ad uno del gruppo e siamo partiti attraversando il vigneto fino al confine da un buco sulla siepe ci siamo introdotti nei terreni dei vicini, ci siamo guardati bene intorno per non incrociarli e abbiamo iniziato l’avventura. Dopo un bel cammino siamo giunti dove vi avevano messo delle piantine di angurie che ormai erano giunte a maturazione. Le abbiamo guardate a lungo subito tentati dall’idea di rubarne una per mangiarla solo che qualcuno ha cominciato a ridire che non era lecito e se ci scoprivano sarebbero state botte per tutti come quella volta con l’uva che seppur poca non si poteva prendere dal campo degli altri, così siamo ritornati a casa. Ma il giorno successivo un piccolo drappello di fratelli sparì dalla corte perché aveva ripreso la strada del giorno precedente e dopo un paio d’ore erano di ritorno nascondendo sotto alla canottiera una vistosa palla rotonda infatti questa volta l’avevano presa sul serio l’anguria e raggiunto il nostro nascondiglio la tagliarono e la offrirono a tutti.
Quel lauto banchetto ci rese felici e particolarmente chiassosi però poco dopo da lontano si sentivano le grida di uno dei genitori che ci stava cercando da un po’ ed era molto arrabbiato, noi capito il pericolo siamo rimasti nascosti ma tutti spaventati: “dove sio picoe pesti, ladri, farabuti, bruti e po basta”, “dove siete nascosti piccoli pestiferi, ladri e delinquenti, brutti e mi fermo qui”. Alcuni indizi portavano purtroppo al nostro posto segreto ma non riuscì a trovarci “a vegnarì fora par magnare e ora fasemo i conti picoe pesti. Savì ben che ste robe no se fa e adeso dovarè rendare anca conto” parole così incomprensibili che ci spinsero solo a fare delle grandissime risate, tanto non ci avrebbero mai trovati nel nascondiglio ricavato nel posto più lontano dei campi e reso impenetrabile da una serie di siepi artificiali che avevamo costruito per proteggerci. Poco dopo il sole iniziò a tramontare e il buio calando piano piano faceva salire la paura che gli adulti erano certi di prevedere, del resto i loro racconti avevano sempre un contorno comune per intimorirci in modo da educarci alle brutte avventure della vita.
Siamo rimasti lì fino a notte fonda solo che qualcosa andò storto e non era altro che uno stupido uccello che impaurito dalle nostre risate pur trattenute da una mano decise di far chiasso, così gli altri uccelli lo imitarono e cominciarono a fare un tale rumore da indurci a scappare verso casa e appena messo piede nella corte ci siamo dovuti arrendere. Quello che è successo dopo si può intuire, quello che importa è la parola “peste” che risuonò per la corte in decine di sfumature e dopo le inevitabili sculacciate qualcuno decise di punirci con una punizione esemplare, una delle inevitabili pene era la razione a “pane e burro” e pure per diversi giorni, gioia fu che aggiungendo un poco di miele diventavano una vera delizia così anche le punizioni molto spesso giuste alla fine diventano pure buone. Nessuno di noi riuscì mai a scoprire come i genitori erano riusciti a scoprire il furto dell’anguria dal campo del vicino.
Ogni bambino nella sua vivacità può assumere un comportamento difficile da gestire e diventare una peste, un tempo e nel nostro immaginario dovevano sempre rappresentare il peggio che poteva succedere. Negli anni settanta furono proiettati diversi film dal titolo “Pierino la peste”, un bambino che ne combinava di tutti i colori era del tutto fuori dagli schemi, c’era chi lo si imitava e chi lo criticava, in pari modo.
L’altra cosa che ricordo bene è il santino di san Rocco attaccato alla porta della stalla, spesso venerato e chiamato a proteggere ogni malattia che colpiva le bestie e se a nostra insaputa ci imputavano di essere dei “pestiferi” e si veniva condannati senza appello ricorreva questa filastrocca “o san Roco caro manda via sto staro che senò me bate e fa mal e culate”, “oh san Rocco amato, frena la mano con la verga che ci vuole picchiare sulle natiche, che poi fanno male”.
San Rocco di sicuro era un santo molto venerato e le persone di campagna lo hanno raffigurato in migliaia di capitelli posti negli incroci delle strade di campagna o sui sentieri di montagna, come pure in molte chiese di tutta Italia si trovano cappelle a lui dedicate. Mentre a Venezia il 16 di agosto giorno della ricorrenza di san Rocco, il Doge faceva la sua uscita per recarsi nella chiesa dedicata al santo, costruita vicino alla chiesa dei Frari, e dopo aver ascoltato la messa celebrata in modo solenne si recava nell’Albergo della Scuola Grande che Tintoretto fedele confratello abbellì con moltissime tele di grande bellezza, poi partecipava ad un grandioso rinfresco, vi rimaneva per tutto il giorno e poi faceva ritorno a Palazzo Ducale.
Pane a fette con burro: fette di pane dove ci spalmiamo un poco burro freschissimo e poi spolverate di zucchero semolato, una delizia ancora oggi, altro che le merendine così belline e così invitanti e così artificiali che si comprano nei supermercati o nei grandi magazzini.
Le foto sono: quella d’inizio di Bollettin di Correzzola, le altre di Silvana Borille e Paolo Nequinio.