Far fiò

Far fiò” deriva sicuramente da “filare”, la tipica occupazione delle donne quando trasformavano la materia grezza come la lana, il cotone e realizzavano il filato da adoperare per creare tessuti e poi capi da indossare, ma si può anche tradurre dalla parola greca “filè” che vuol dire “stare assieme, in compagnia” come tutte quelle serate vissute nelle stalle quando nelle case di una volta non c’era riscaldamento e neppure la corrente elettrica.
Molto tempo fa, le genti della campagna, durante i freddi e rigidi inverni, usavano ritrovarsi assieme nella stalla degli animali, bovini, asini, cavalli, capre, pecore, galline e qui riuniti si raccontavano delle storie, si comunicavano le notizie, si passavano le novità e chi ne era capace leggeva ad alta voce il giornale, qualche vecchio libro, narrava favole, cantilene, preghiere, altri momenti erano dedicati al gioco, alla filatura, al rammendo, al cucito al ricamo. Questi incontri, in genere, iniziavano alla fine dell’autunno, a novembre e duravano fino a primavera inoltrata, la fine di marzo.
Le famiglie di alcuni decenni fa erano composte da molte persone, nella casona un via vai continuo e quando il lavoro dei campi si riduceva a poche mansioni ed era tutto concentrato nella corte, come la macellazione del maiale o delle altre bestie, il resto riguardava la cantina o la stalla, il travaso del vino nuovo, la mungitura e il governo delle vacche, dei vitelli, delle capre, senza dimenticare che in questa stagione si doveva spargere il letame sui campi, veniva prelevato dalla concimaia e poi essere distribuito sulla terra appena dissodata in modo che piano piano penetrasse nelle crepe del terreno per renderlo fertile. In inverno le giornate hanno poca luce perciò finita la cena fatta di tanta polenta e poco altro ben suddiviso tra i vari commensali, ci si trasferiva tutti, o quasi tutti, nella stalla delle bestie alla ricerca di tepore un modo per risparmiare sulla legna messa a bruciare nel focolare, le braci venivano tolte molto presto per riempire gli scaldini e poi messi sotto alle coltri, il piumone riempito di penne d’oca, le coperte di lana grossa, il copriletto di cotone dei vari letti o lettoni.
Si prendeva una coperta per riparare le gambe dal freddo pungente o lo scialle di lana per coprire le spalle prima di andare nella stalla poi si creavano i gruppetti separati, gli uomini si mettevano assieme per organizzare delle partite a “briscola” o a “tresette”, o per passarsi le ultime notizie, i bambini grandi con le mamme e le nonne per giocare alla tombola, al gioco dell’oca o per ascoltare storie fantastiche riportate oralmente di generazione in generazione, storie di fate, streghe, maranteghe, draghi, orchi, folletti, maghi, anguane, gnomi, esseri strani e paurosi o principi che vivevano in castelli sfarzosi.
Durante le guerre al fiò mancavano gli uomini perché erano impegnati al fronte, ma lo stesso la stalla si riempiva di persone e di storie, quelle lette sulle lettere (sgrammaticate) dei soldati che erano in guerra: “ Cara mama, qui tuto bene anche se fa un fredo boia, si resiste coi denti streti e si spera di non esare mandati al salto contro i nemici. No vedo lora de tornare, vi abracio vostro figlio. G.”. Le madri a fatica trattenevano le lacrime e speravano di rivedere il ritorno del figlio partito per combattere, si consolavano con i bambini piccoli. Dopo la disfatta di Caporetto nel 1917 vennero richiamati anche molti uomini già maritati e durante le licenze premio riuscivano a generare altri figli, accuditi poi dalle mogli che li aspettavano ansiose. Senza scordare i momenti dolorosi del conflitto successivo quando schiere di uomini venivano caricati sui carri merci e spediti nei campi di internamento in Germania per farli lavorare nelle fabbriche. In alcuni momenti la stalla si riempiva di combattenti partigiani che sceglievano di sostare in questi posti per ristorarsi, scaldarsi o nascondersi per poche ore prima di riprendere il cammino attraverso i campi e sfuggire ai rastrellamenti tedeschi, ma anche di sfollati che scappavano dalla città continuamente colpita dai bombardamenti devastanti che distruggevano interi quartieri e li costringevano a trovare riparo nelle campagne.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale non rimaneva altro che ricostruire sulle macerie che la stessa aveva generato, si dovevano rifare le città devastate così i giovani scapparono dalle campagne per andare dove si trovava il lavoro e ben salariato. Così l’appuntamento con il fiò venne meno e con l’arrivo delle stufe a legna dette “economiche” che permettevano di scaldarsi e cucinare in maniera più autonoma, e con l’arrivo della corrente elettrica sancì la fine di questo bel momento di condivisione tra famiglie.
L’esodo dalle campagne per andare a vivere nelle periferie delle grandi città industriali tolsero alle famiglie la possibilità di rivivere quella esperienza del Fiò, perché nelle case era arrivata la televisione o la radio e quindi scomparivano le comunicazioni orali tipiche dei tempi passati, bastava una stanza o un tinello dove appoggiare il cubo con il tubo catodico. Inventata per far intrattenere e coinvolgere molte persone a spettacoli sportivi come le partite di calcio o musicali come il Festival di Sanremo, il Musichiere, o anche per stimolare la personale bravura con dei giochi per tutti come Lascia o Raddoppia e Rischiatutto, ma anche per far giungere notizie da tante parti del paese e del mondo, con il Telegiornale.
Del tempo del fiò poco è rimasto se non i ricordi e alcune cantilene ripetute di continuo che ancora oggi qualcuno riesce a riportare con estrema vivacità ma che sicuramente avevano cullato i pensieri e i sogni di tanti bambini, ed eccovi allora quelle che siamo riusciti a recuperare e a dire la verità neppure tante.
Una abbastanza in voga era questa: Scumissia la storia de sior Intento, che dura tanto tenpo, che mai no se destriga: vuto che tea ’a conta, vuto che te ’a canta o vuto che te ’a diga? – a questo punto il bambino chiedeva di essere accontentato da una delle proposte e così si ripartiva – questa xe ea storia de sior Intento che dura tanto tempo, che mai no se destriga: vuto che te ’a conta, vuto che te ’a canta, vuto che te ’a diga – e così fino al meritato abbandono del piccolo che stanco della cantilena si addormentava.
Un’altra: Jera ’na volta, – Piero se volta, – casca na fassina, – Piero se rovina! – Casca el martel, – Piero se rompe el servel! – Casca un sucol, – Piero se rompe el col! – Casca na sopa, – Piero se copa!
Vicino alle feste di Natale si era soliti tirare fuori questa cantilena: sant’Jsèpo veciarèo, – cosa gavé in quel sestèo? – Do fasse e un panesèo, – pà infasar Gesù d’amor, – pà infasar nostro Signor! – La museta caminava, – la Madona se sentava, – sant’Jsèpo menava via, – co tuti i angei in compagnia.
E quando l’inverno allungava i giorni con forti nevicate e non lasciava nessuna possibilità ad uscire ed era più utile rimanere in casa, senza altro svago che rimanere vicini al fuoco ad osservare le donne affacendate, o nella stalla a sentire il ruminare infinito delle vacche, allora si dovevano trovare degli stratagemmi per non annoiarsi e così le cantilene diventavano storie infinite, come questa molto nota nelle zone dove vivo.
Din, den, don, – le campane de Monte Ortòn, – le sonava tanto forte – le butava zo le porte, – ma le porte gera de fero – volta la carta ghe xe un capèlo – sto capèlo xe pien de piova – volta la carta ghe xe ’na rosa – una rosa che sa da bon – volta la carta ghe xe un melon – sto melon xe massa fato – volta la carta ghe xe un mato – e sto mato xe da legare – volta la carta ghe xe un mare! – Mare, marina – volta la carta ghe xe ’na galina – sta galina fa cocodè – volta la carta ghe xe un re – e sto re xe massa insoénte – volta la carta ghe xe un dente – e sto dente xe masseàro – volta la carta ghe xe un peràro – sto peràro fa boni peri – volta la carta ghe xe do sbìri – e sti sbìri zoga a la bala – volta la carta ghe xe ’na cavàla – sta cavàla magna ben – volta la carta ghe xe del fén – e sto fén xe par i cavai – volta la carta ghe xo do pai – i sti pai xe de color rosso – volta la carta ghe xe un posso – e sto posso xe pien de aqua – volta la carta ghe xe na gata – e sta gata ga i gatèi – volta la carta ghr xe do putèi – i do putèi zoga a ostarìa – volta la carta che ea storia xe finìa. Una narrazione fatta tutta in rime baciate o quasi e più la fantasia della mamma, o della nonna, o della zia, era ricca di proposte e più si allungava la cantilena.
Quando il lavoro chiedeva la insostituibile presenza delle donne e dovevano staccare dai loro seni la bocca avida dei bambini che ovviamente strillavano a più non posso allora si dovevano inventare delle storie magari raccontate da qualche zia o persona più grande che le aveva sentite a loro volta: To toc, cavàlo biso – la mama va a Treviso, – co le tetìne piene – par darle a le putèle – le putèle non le vol – la mama ghe le tol! – La monta sul fighèr, – la ciama el calegher – la contesa xe in giardin – la ciama Giovanin – Giovanin xe in stala – el governa la cavala – cavala e cavalon – buta xo sto puteo par el balcon e poi si tentava di farlo cadere con lo scopo di interrompere il suo pianto insistente.
Nelle notti di buio profondo quando il bambino non ancora esaurito cercava ancora di emettere qualche pianto si ricorreva alla ninna nanna: Fa la nana bel bambin – fa la nina bel putin – nei braseti de la mama – fa la nina, fa la nana! – La to mama la xe qua – el popa e lè tornà – fa la nina fa la nana – nei braseti de la mama! – Ma se lu no tornarà – la to mama xe senpre qua – coi braseti te cunarà.
E mi dispiace chiudere qui questo articolo perché poi iniziavano le cantilene con i bambini in braccio da portare nelle culle di vimini, “le cune” (da cunare o cullare come riportato sopra) e poi ci si coricava sotto al piumone caldo, il canto recitato a bassa voce rompeva il silenzio della notte che si temeva durasse per sempre. Ma il nuovo giorno arrivava e si ricominciava ad accendere il focolare e a fare tutto il resto.
Le traduzioni delle cantilene le lascio alla vostra bontà e alla vostra fantasia sicuro che in Brasile dove el Talian resiste con caparbietà, sicuramente le stanno già ripetendo in compagnia.