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Le vacanze di Natale

Le vacanze di Natale

Chissà che delusione quando avete provato a guardare questo blog e non avete trovato un articolo che raccontava del Natale. In effetti ora mi devo far perdonare ma se non sono riuscito a scrivere nulla è anche a motivo del grande disinteresse che ho riscontrato d’intorno e a ragione perché purtroppo abbiamo completamente dimenticato il vero significato di questa festa.

È una festa della famiglia perché ricordiamo una famiglia, quella composta da Maria di Nazareth e Giuseppe che son dovuti partire dalla propria casa per recarsi a Betlemme per registrarsi nelle liste “dei vivi” visto che era stato indetto un censimento su tutto il grande impero di Roma e anche la Palestina con le varie regioni della quale faceva parte era compresa in questo impero. La storia nel mondo cristiano ma anche fuori di esso e ben nota e io non sto certo a ricordare quanto abbiamo sentito e visto in duemila anni di tradizione cristiana, quello che si deve aggiungere al riguardo è la bontà di un fraticello che passando per Greccio, in Umbria, aveva notato che in una grotta si era ritirato a riposare un pastore con tutte le sue pecore e stava tutto raccolto a dormire e a ripararsi dal freddo. Frate Francesco di Assisi con i suoi amici avevano iniziato a vivere la povertà e quando videro quel quadro, siamo verso gli anni finali del 1200, subito ne rimase estasiato e subito lo collocò nell’esperienza di quella prima famiglia che iniziò la nuova era dell’umanità. Infatti quando Francesco e gli altri fratelli si avvicinarono alle grotte vi trovarono molte altre persone e tra queste anche una giovane mamma che stava allattando il suo bambino. Il collegamento fu immediato con l’esperienza vissuta da Maria e Giuseppe nelle grotte vicino a Betlemme e come si dice oggi “fu amore a prima vista” perché anche a quel tempo si era perduta la vera festa che aveva dato origine al Natale del Signore. Si festeggiava il solstizio d’inverno con tutti i suoi riti legati alla benedizione del fuoco, simbolo di calore ma soprattutto di luce, la terra assopita a causa della stagione fredda (siamo sempre nell’emisfero boreale) doveva essere aiutata a svegliarsi, le notti infinite che limitano qualsiasi intervento da svolgere sui campi anche perché il gelo indurisce le zolle, le stalle da accudire e amministrare con grande senso del risparmio perché “non si sa mai” e la “neve dicembrina par disete volte ea te infarina“, l’inverno se arriva presto rimane sulle campagne più a lungo.

Anche al tempo di frate Francesco quando arrivava l’inverno non c’era molto da star allegri soprattutto quando si nasceva e si viveva in una grotta, ma ugualmente era un motivo di grande festa e così con la saggezza che solo un santo poteva avere corse per tutto il territorio di quella umile scena ad avvisare quante più persone possibili per far famiglia attorno a quel bambino che era appena nato e ovviamente era avvolto con delle pelli di pecora. In molti si destarono dal torpore di una casa riscaldata dal camino acceso e riempirono dei cesti di vimini con quello che avevano in casa e lo portarono in quella grotta e così si replicò la scena di Betlemme. Quello che facciamo noi oggi è perpetuare questo avvenimento di Greccio in Umbria, nato dall’umiltà di un frate che aveva scelto la povertà per testimoniare la grandezza del Padre del cielo.

Ai giorni nostri però si rimane abbastanza costernati dalla totale dimenticanza di questo evento e abbiamo trasformato la festa di Natale in un avvenimento vissuto completamente al di fuori dal contesto appena descritto e infatti molti mezzi di comunicazione non si sono preoccupati di informare che anche oggi esistono “famiglie che vivono in una grotta” nella povertà più nera, ma bensì si sono prodigati a presentare il prodotto migliore, il più buono, il più autentico e non continuo con l’elenco delle varie pagine pubblicitarie delle riviste vendute in questo periodo.

Così ho preferito aspettare e scrivere del Natale dei miei ricordi ma soprattutto delle vacanze di natale che si vivevano negli anni sessanta raccontandovi alcuni momenti significativi. Innanzitutto la novena di Natale da vivere con grande intensità proprio per prepararci bene alla festa, la dottrina che indirizzava alla confessione dei peccati e anche all’astinenza da tutto quello che era tentazione, incontro col male, cibo grasso come la carne, ma anche i dolci, mangiare di “magro”, come in Quaresima è sempre stata la norma vissuta anche in Avvento. E da qui la terribile paura nel raccontare al parroco quanti cioccolatini avevo preso da dentro certe bocce di vetro che si trovavano nel negozio-osteria dove sono nato e poi avevo mangiato di nascosto.  Poi c’era la preparazione, durante le ore scolastiche della “recita di Natale” che doveva servire a far esaltare di gioia le maestre, i genitori che venivano ad assistere, alcuni bambini con la grande predisposizione al teatro, quella che io non avevo perché mi ritrovavo con un carattere molto timido, le suore del paese, per via del fatto che la recita si replicava il giorno dell’Epifania con tutti i bambini dell’asilo (in quegli anni si chiamava così). Il presepio che doveva ricordare la scena di Greccio e quindi il muschio da trovare lungo i fossi, le cortecce dei “selgari”, “salici“, che ben aiutavano alla costruzione della scena, i sassetti per le stradine che dovevano essere tanto bianchi e dato che le strade non erano ancora asfaltate si prendevano dalle piccole motte formate dalle ruote delle auto sul ciglio, le lunghe file di tralci d’edera da intrecciare per dare più verità possibile a quella scena agreste e poi le “soche” “zuccotti” di legna tagliata che servivano a fare le montagne, un poca di farina bianca per fare la neve, sempre necessaria, poi si sceglieva il posto adatto e ad ogni tentativo di possibile spostamento alla fine si ripiegava sempre nel solito posto, quello meno trafficato, il sottoscala o l’angolino vicino al telefono pubblico sopra a due casse di legno, lì almeno non rischiava di essere travolto e poi c’era sempre il muro vicino dove si attaccava il cielo stellato con la cometa.

La mattina di Natale e la sveglia mattutina per andare alla messa a piedi, non abitavamo lontano dalla chiesa, perciò pulizia del viso e vestito “da festa”, sguardo furtivo alla mensa ma niente colazione e poi entrata in chiesa, illuminata dalle candele, la luce flebile, l’alba che rischiarava, già nell’aria si sentivano le canzoni del coro “Adeste Fidelis” e poi la cerimonia tutta in latino con i canti in Gregoriano che a persarci oggi fa veramente nostalgia grande; per fortuna dal giorno prima mi mettevo delle caramelline in tasca tanto pensavo non sono cioccolatini e così non facevo peccato e ogni tanto ne scartavo qualcuna cercando di non farmi sentire, avevo anche dei zuccherini incartati con una carta cerata che non faceva nessun rumore solo me ne rimanevano pochi perché tutti quelli seduti accanto me li chiedevano. Quando finiva la messa eravamo esausti ma felici e senza aspettare nessuno si correva a casa perché ci aspettava una fumante cioccolata calda preparata dalla zia che veramente riscaldava lo stomaco, le dita dei piedi sempre intirizziti dal freddo e da certe scarpe messe a forza. Scottava la lingua ma non importava, si inzuppavano i biscotti “zuppa“, la gioia era indescrivibile e ce n’erano per tutti i fratelli e i cugini, sembravano tanti come i baci che ci davano i grandi quando tornavano a casa, per augurarci una buona festa di Natale.

Il pranzo da consumare alla casa dei nonni paterni e quindi i preparativi per andare da loro, partire con la Cinquecento celeste di mio papà, la borsa del cambio dei vestiti visto che da loro erano previsti i giochi in cortile con i cugini, il fagotto delle provviste. Poi dopo essere arrivati e dopo aver salutato zii e zie, nonna e nonno si ascoltava alla radio la benedizione “Urbi et Orbi” del papa che ci faceva tanto ridere perché in ginocchio per terra ci si guardava negli occhi per vedere se avevamo perso la vista, poi si consumava il pranzo fatto di risotto e fegatini, faraona arrosta, l’immancabile zampone di maiale cucinato a bagno maria e il purè di patate, alla fine il dolce “a freddo” specialità della zia che adesso non ricorda più la ricetta (anche lei è ottuagenaria, ormai), assomigliava ad un tiramisù ma molto, molto più elaborato dato che a quel tempo non si usava il mascarpone per fare la crema ma la si faceva esclusivamente con le uova e poi invece del caffè usava il “crema marsala” un vino marsala arricchito con l’uovo, una delizia impareggiabile. C’era sempre il pandoro di Verona e per finire macedonia e mandorlato di Cologna Veneta, qualche arachide, noci da schiacciare e i datterini accompagnati dalla famosa frase di mio padre “chi pianta datteri, non mangia datteri“. Un Natale vissuto veramente in famiglia anche se di lì a poco tutti si mettevano attenti perché sfilavano da sotto l’ultimo piatto la letterina che avevamo confezionato a scuola, fatta di frasette dolci, soavi e di pace per tutti e poi per ultimo la poesia da recitare a memoria sopra ad una sedia per giunta, ultima fatica, ed infatti ci faceva sudare tanto soprattutto quando non si trovavano più le parole e se qualcuno ci suggeriva bene altrimenti diventava un dramma, in compenso la “mancia” arrivava da tutti i grandi e io credo che l’avevano già preparata dentro la tasca dei pantaloni perché trovavano subito il soldino che avevano deciso di darci.

Verso sera si ripartiva per andare alla casa dei nonni materni e qui si replicava la festa solo che il menù era alquanto diverso perché certi cibi loro li avevano già mangiati a pranzo e perciò non venivano più riproposti ma ricordo con nostalgia certe polente, immense, gialle, stese sul tagliere che fumava e spandeva il suo aroma in tutta la cucina, la “cucina economica” che riscaldava fette di salame (da loro uccidevano sempre il maiale), che io non gradivo per preferire la sopressa o il salame appena affettati, non prima di una buona minestra di brodo di gallina con dentro delle tagliatelle all’uovo che la nonna aveva preparato nei giorni precedenti. Qui la recita della poesia si faceva una gara difficile visto che ci si confrontava con tutti i cugini, anche quelli che venivano dalla Lombardia. Adesso non so come si esibivano ma credo che alla fine la “mancia” che solo il nonno ci consegnava nelle nostre piccole mani era sicuramente uguale per tutti e non certo esosa.

Alla fine della serata quasi sempre chiedevo di rimanere dai nonni alcuni giorni per vivere delle vacanze all’insegna della spensieratezza e dei giochi infiniti, organizzati assieme ai cugini “foresti” che mi riempivano di novità arrivate da certi paesi lontani, come la storia di “babbo Natale“. Questo personaggio inventato dalla azienda di una bevande americana ma che intanto spopolava soprattutto nelle città che stavano diventando vere metropoli, io ci credevo a lui e di quello che raccontavano, che arrivava nelle case attraverso il camino per portarci dei regali e non faceva altro che realizzare i nostri sogni.

Ma così la promessa di aiutare i poveri iniziata dal poverello di Assisi venne soppiantata e dimenticata  da quella di un uomo con la barba bianca e il vestito rosso bordato di bianco, che vive in Lapponia (ma dove sarà mai la Lapponia), che assieme ai suoi amici elfi, gnomi, fate e altri, quanti in questi anni ne sono stato inventati, ci prepara i regali e con una slitta trainata da delle renne viene nei nostri paesi per consegnarli a tutti nella notte di Natale, quella che noi usavamo per ripassare la poesia da esibire il giorno successivo.

Comunque sia quello che viviamo oggi, BUON NATALE, BUONE FESTE, BUONA PACE E SERENITÀ.

La foto di inizio ci fa vedere una festa di Natale del 1964 a giudicare dalla mia statura ed età. Si capisce che è Natale perché sulla tavola sono rimaste due fette di panettone e i bicchieri hanno l’aghifoglio; nessun addobbo alle pareti, questo ci mostra la semplicità con cui si viveva un tempo dove contava di più lo stare insieme che lo sfarzo. Io sono in braccio ad un mio cugino molto più grande di me. Fa parte della collezione di S. Flora, mia zia, che si nota sorridente in centro, in piedi, tra le due sorelle, zia Lidia e zia Maria.

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