17 gennaio sant’Antonio abate
Il 17 gennaio si ricorda la vita di sant’Antonio abate, un monaco eremita di origini egiziane e vissuto pochi secoli dopo la morte di Cristo. Quindi agli albori di quell’esperienza cristiana che poi si estese in tutto il resto dell’impero romano. Della sua vita vi rimando alle notizie riportate su altre fonti che ho visto sono molto ben sviluppate e chiare. Quello che vorrei scrivere qui è la storia che mi è stata raccontata da un anziano e che per tale ragione deve essere intesa come una vicenda capitata nel suo paese ma che assomiglia ad altre di simili successe in tutta Italia al tempo della seconda guerra mondiale.
Festa di sant’Antonio abate ma è meglio dire il patrono dei macellai ma ancor di più è la festa della benedizione degli animali. Tempo fa infatti per tradizione in questo giorno si prendevano gli animali dalla stalla e li si accompagnava sul sagrato per farli benedire dal prete. La benedizione serviva per scacciare le malattie e anche le cattive intenzioni che potevano colpire questa o quella famiglia. Quel giorno di gennaio del 1945 nessuno poteva immaginare che dopo pochi mesi la guerra sarebbe terminata ed infatti gli irriducibili, legati ancora al regime fascista, continuavano a scorazzare tranquilli per i paesi incutendo paura e dominio sulle povere persone ridotte alla fame da razionamento e dalle esagerate gabelle imposte dalle leggi di quel tempo. Chi aveva qualche animale in casa possedeva un vero tesoro e infatti il giorno della benedizione è servito per mostrarlo a tutti, non fecero vedere dei bei vestiti o delle collanine d’oro ma, quella famiglia, stava mostrando una vitella, un uomo la accompagnava, assieme agli altri animali della stalla, per farli benedire. Era bella sana e ben cresciuta nonostante le scarse possibilità, garantiva il latte ogni mattina alle bocche di cinque piccoli fratellini, più i due genitori e a qualche aiutante, viveva in una stalla di una casa antica, costruita dai genitori del capo famiglia, assieme a lei c’erano anche due capre e una coppia di conigli. Il 17 gennaio erano tutti davanti alla chiesa a ricevere la benedizione, faceva un grande freddo, la campagna era gelata e il cielo minacciava l’arrivo della neve, solo che cadde copiosa alcuni giorni dopo quell’uscita pubblica e fu una sfortuna per quella famiglia e per la vitella.
La benedizione servì a mettere sul sagrato quello che durante la notte poi venne razziato da una banda di ladruncoli, ma non erano i soliti ladri di galline questi sapevano agire in modo coordinato e rubavano della merce più sostanziosa. Infatti quella notte la vitella sparì senza le capre che avevano probabilmente cominciato a belere e quindi facevano troppo rumore, fu presa, legata e poi trascinata fuori prendendo la strada dei campi, se avesse nevicato avrebbero lasciato sulla neve le lore impronte e subito sarebbero stati scoperti ma invece anche il tempo li aveva aiutati.
Il mattino seguente, il povero uomo si accorse del furto appena aprì la porta della stalla e si disperò, corse dalla moglie e dopo un breve consulto decisero di correre dal parroco per riuscire a fermare quello scempio. Potevano andare dal podestà del paese ma non si fidarono molto, anche perché correva voce di certi sotterfugi che avvenivano in paese e generati dal quel drappello di invasati al quale lo stesso faceva capo e così preferirono rivolgersi al parroco, sentire la sua voce consolante che immediatamente li confortò assicurando la sua insistente preghiera. Erano brutti tempi di carestia e per la povera famiglia questa disgrazia poteva compromettere il loro stato per molti mesi, in un attimo avevano perso tutto il loro sostentamento e i poveri bambini potevano patirne le indelebili conseguenze.
Passarono i giorni ma niente, dei responsabili del vile atto, nessun indizio e così il parroco tentò il colpo da teatro e infatti una delle domeniche successive quando salì sul pulpito cominciò con una predica a dir poco incredibile. Il pulpito si trovava in tutte le chiese ed era un piccolo palco costruito in legno, poteva essere anche in muratura (nella basilica del Santo a Padova, è proprio così) e rialzato dal pavimento della chiesa circa cinque o sei gardini, su certe basiliche si alzava anche di più per consentire al predicatore di essere visto e capito anche dai più lontani, era posto a metà circa della chiesa, non esisteva ancora la corrente elettrica e per questo non c’erano microfoni e altoparlanti e quindi ci si fidava di più della risonanza emessa dalla voce quando si scandivano bene le parole, anche senza gridare e per chi lo ricorda la celebrazione era sempre detta in latino, lingua ufficiale della Chiesa, però almeno la predica la si faceva in lingua corrente e a volte anche nella lingua parlata dalla gente. Quella domenica mattina con la neve che copriva la campagna e con il freddo che pungeva le mani si poteva solo sperare di rimanere accoccolati dal torpore che il “tabarro” riusciva a dare al corpo ancora assopito, ma invece ebbe un sobbalzo perché il parroco tuonò: “la notte di sant’Antonio gli animali parlano, si parlano tra loro e si raccontano storie, di fatica incredibile, di fame, di sforzi, ma anche confidenze, non è consentito assistere ai loro racconti perché altrimenti possono capitare dei fatti spiacevoli. E un fatto spiacevole è proprio capitato ad uno dei nostri parrocchiani. Quando ho saputo della disgrazia capitata a questa famiglia ho cominciato subito a pregare affinché i responsabili si rendessero conto che stavano facendo cadere in miseria una già provata famiglia e così per un miracolo di sant’Antonio gli animali ripresero a parlare e mi hanno confidato i nomi dei ladri di quella notte, io non andrò mai a casa loro a chiedere di pentirsi perché devono essere loro a venire da me chiedendo misericordia, anche perché tali individui sono qui presenti e non serve assistere alla celebrazione della messa quando si ha sulla coscienza la responsabilità di aver ridotto alla fame una povera famiglia”. Tutti ammutolirono e cominciarono a guardarsi l’un l’altro per capire dagli sguardi chi potevano essere i colpevoli, poco dopo il parroco, fatta una breve pausa riprese: “non ci sarà giustizia per queste persone se continueranno a nascondersi e far finta che la cosa non li riguardi anzi devono sapere che il tarlo della colpa li accompagnerà per sempre a meno che con dovuta contrizione non si presentino alla mia porta affinché io possa raccogliere le loro scuse per poi estenderle alla famiglia danneggiata”. Poi da buon cronista illustrò per bene cosa era successo quella sera lasciando in molti animi la consapevolezza che adesso ogni uno del paese doveva rimboccarsi le maniche per assicurare l’assistenza alla famiglia colpita dalla disgrazia ed anche tutti dovevano salvaguardarsi da altre intrusioni nelle altre stalle.
Pochi giorni dopo alcune camice nere furono trasferite nel ferrarese che a detta del loro capo avevano assunto un incarico di responsabilità, dovevano aggiungersi alla guarnigione che presidiava quei luoghi e dovevano fermare l’avanzta delle forze alleate di liberazione e poco si venne a sapere della loro fine dopo la fine della guerra avvenuta il 25 aprile di quell’anno, addirittura qualcuno diceva che durate un rastrellamento fatto dai partigiani siano stati colpiti e addirittura morti in combattimento, ma questa notizia non ha mai trovato fondamento. Mentre per ciò che riguarada il fenomeno dei furti nelle stalle, capitarono altri episodi ma appena termianta la guerra diminuirono drasticamente anche perché dopo quella vicenda molto triste e ricordata con insistenza venne istituito il “rapporto di buon vicinato” dove chi lo poteva fare aiutava l’altro informandolo di ogni vicenda che capitava nei pressi di quella o dell’altra casa e se per caso qualche losco individuo camuffato da spasimante faceva delle incursioni in proprietà altrui immediatamente veniva invitato a sloggiare e a frequentare altri luoghi, magari il più lontano possibile. Poteva succedere che l’invito non veniva raccolto e allora intervenivano delle sonore randellate sulla schiena finché non spariva dalla circolazione.
Molte volte, dice il mio narratore, ho sentito raccontare dal parroco tutta l’amarezza di quell’episodio e di quanta sfrontatezza manifestata da certi personaggi del paese nel castigare il povero malcapitato catalogandolo come nemico e di come lui, uomo di chiesa, aveva faticato tanto a portare un minimo di concordia tra le persone anche se avevano idee diverse tra loro e diceva che “ea esperiensa insegna“, chissà se è veramente così.
A differenza degli altri articoli oggi non si parla di cibo e non vengono presentate ricette, ma questo breve racconto serve ad aprire la porta agli accadimenti futuri perché dopo la festa di sant’Antonio abate si dava inizio al Carnevale e a Venezia che del Carnevale ne ha sempre fatto una istituzione, i giorni precedenti alla data del 17 gennaio, si lasciava correre per le calli un maialino che veniva alimentato da ogni famiglia della città (si chiamava “questua di sant’Antonio“). Alla fine del periodo di vagabondaggio veniva messo all’asta e con il ricavato si portava conforto ai poveri della città, proprio come aveva fatto sant’Antonio abate che prima di ritirarsi in una grotta per fare l’eremita aveva diviso la sua ricchezza con tutti i poveri del suo paese. Buon Carnevale a tutti, allora.