Il cambio di stagione

Quando arrivava la bella stagione e le temperature cambiavano sensibilmente, in tutte le case si assisteva alla grande frenesia di questo cambio di stagione. “El cambio de stajon” voleva dire disfarsi di tutti gli indumenti usati durante l’inverno e tirar fuori dai bauli adagiati sugli angoli delle stanze o negli stanzoni enormi del sottotetto chiamati solitamente i granai, “el granaro”, perché luogo adatto alla conservazione delle granaglie raccolte durante la mietitura, sempre ben controllato dai gatti intenti a distruggere i topi che si annidavano, sia cacciandoli che facendoli fuggire lontano.
Dalle soffitte si tiravano fuori i capi più leggeri, di cotone o di canapa, adatti al clima più caldo dell’estate che stava arrivando e si mettevano a riposo quelli invernali fatti di lana, velluto o cotone pesante, si tiravano giù i materassi fatti di crine per sostituire quelli di lana più adatti alla stagione più fredda. Nelle case di campagna il guardaroba non era mai troppo voluminoso, al massimo si potevano scovare fuori un paio di cambi di tutto il necessario tra camice, pantaloni, canottiere, mutande, lenzuola, federe, un copriletto, degli asciugamani, pochi calzini perché si stava quasi sempre scalzi, in più c’era un completo da festa in tinte scure che poteva andare bene sia per le cerimonie religiose come qualche matrimonio anche se d’estate erano piuttosto rari perché tutti erano impegnati a lavorare o per qualche funerale e poteva anche succedere perché alla morte non interessava se molti erano impegnati in tantissimi lavori nei campi.
Questo cambio di stagione voleva dire preparare la “lissia granda” cioè le donne si organizzavano per lavare con la lisciva di acqua e cenere tutto quello che si era usato in inverno e dopo averlo asciugato e stirato lo rimettevano nei grandi bauli portati in casa agli inizi con dentro la dote del matrimonio che poi con l’andare degli anni era stata sostituta, perché i vestiti si sgualcivano, con altri capi di vestiario nuovi o rammendandati alla buona. Si indossava quello che c’era per potersi presentare in società almeno in modo dignitoso. Il discorso cambiava invece nelle case dei benestanti che potevano diporre di altre e più consistenti risorse economiche tanto da poter avere delle stanze adibite a guardaroba con armadi pieni di vestiti e tutti di ottima fattura realizzati dalle sarte di casa. Sia nella casa dei fittavoli che in certe ville di campagna certi appuntamenti erano del tutto uguali quando c’era il cambio di stagione e se da una parte erano coinvolte le massaie assieme alle figlie nelle altre venivano impiegate molte più persone per fare la “lissia”, da una parte si usava la cenere per fare la lisciva mentre dall’altra si poteva usare il sapone di “marsiglia” originario della Turchia (e chi l’avrebbe detto dato il nome che ha ma si chiama così perché in quella città della Francia ne scaricavano enormi quantità che arrivava dal Medioriente), forse più raffinato, sicuramente più profumato, oltre che più chic.
Le donne che è più corretto chiamarle “serve” piegavano il corpo sui mastelli di legno e strofinavano sia con le mani che con qualche bruschetto per togliere lo sporco dai vestiti invernali e rimanevano ore a sciacquare e risciacquare tutti gli indumenti che man mano arrivavano sulle ceste di vimini portati da altre serve e depositati ai piedi della lavandaia. Ogni tanto qualcuna chiedeva acqua e le ragazzine assieme ai fratelli più grandi correvano a prenderla con dei secchi e la travasavano da grandi bidoni messi sul fuoco acceso nel focolare della corte a scaldarsi, quella appena tirata su dal pozzo o dalla pozza che si trovava poco distante. Se il tempo non permetteva di fare la “lissia granda” allora le donne si recavano direttamente alla pozza e vi lavavano dentro gli indumenti, inginocchiate sulla riva con la tavola di legno del mastello appoggiata al ventre, si sporgevano e lavavano i panni facendoli scivolare sull’acqua e poi sbattuti sulla tavola varie volte fino ai normali risciacqui, infine li stendevano adagiandoli sopra al trifoglio del prato che vi cresceva rigoglioso ai bordi della pozza o della riva del fosso o vicino al pozzo della corte. Più fortunate erano quelle donne che potevano lavare i panni direttamnete sul lavatoio, una pergola coperta di assi di legno per ripararsi quando pioveva, al centro una vasca alimentata d’acqua che arrivava direttamente da un grosso rubinetto che zampillava in continuazione e dall’altro lato un foro che faceva uscire quella che traboccava e tutto attorno al perimetro della vasca un piano inclinato di tavole che sostituiva quella di legno usata sul mastello. Nelle ore più tiepide le donne si davano appuntamento e si radunavano assieme, lavavano i panni e intanto cantavano o si raccontavano gli ultimi fatti capitati nella corte o nel paese o in quello vicino, alle volte senza risparmio di particolari portavano in luce delle vicende recenti che nessuna censura poteva filtrare coinvolgendo molto spesso la fantasia, quel tanto che ne uscivano delle storie che sembravano verosimili.
Un giorno si raccontò di quel giovanotto, il garzone del negozio di generi vari, “el casoin”, che doveva consegnare della merce presso alcune famiglie del paese e dato che il suo giro era piuttosto lungo allora decise di raggiungere la sua ultima casa passando per la stradina dei campi, una via segnata più dal passaggio dei carri che dall’uso quotidiano e usata spesso per raggiungere l’altra parte del paese senza dover fare la strada comunale. Passeggiando tra i filari di viti e lambendo le siepi del limite della “cesura” si trovò a transitare a ridosso del pozzo della casa che doveva raggiungere e proprio quando la figlia più grande stava lavando i panni nel mastello. Era molto attenta nel suo lavoro e ogni tanto sbatteva i panni sulla tavola così non si accorse del sopraggiungere del garzone che nel frattempo si era fermato ad osservarla compiaciuto, perché la ragazza ad ogni risciacquo fatto nel mastello si piegava e il busto si allungava per far immergere le stoffe nell’acqua e mostrava molto bene tutta la flessuosità delle sue gambe nude, le metteva tutte allo scoperto come era ovvio e non curante dello spettatore continuava il suo compito. Ma ad un certo punto girandosi per mettere le stoffe sul cavalletto si accorse del ragazzo e ne rimase turbata perché sembrava apparso come uno spirito, all’improvviso, si trattenne dall’emettere un grido di spavento, il garzone lo conosceva bene e da molto tempo, lui tutto paonazzo le sorrise, le fece qualche complimento da farla arrossire di stupore e poi corse verso la corte con la sua sacchetta di robe da consegnare alla massaia. Poi pensava di riprendere la via del ritorno, però qualcosa lo trattenne e fece ritorno al pozzo perché gli sembrava di non aver salutato in modo conveniente la ragazza, che intravide mentre stendeva i panni sul filo attaccato ai due “selgari”, salici, che limitavano la corte, solo che la timidezza ebbe il sopravvento e appena le fu vicino non riuscì a parlare anzi preferì osservarla che dispiegava le stoffe da attacare alla cordicella e dopo un breve cenno riprese il cammino. Sembrava solo un episodio succeso quasi per caso ed invece ecco che sbocciò un nuovo amore, semplice e bello che fece chiaccherare tutto il paese perché molti ne svilupparono i contenuti con la fantasia e dicevano che il merito erano state le gambe e forse sicuramente qualcosa d’altro a far abboccare il garzone e che la ragazza aveva usato un’arma di seduzione tra le più antiche del mondo.
Finita la “lissia” quindi si dovevano stendere i panni sul filo, a volte occupavano tutta la corte volteggiando al vento caldo di inizio estate e dopo che si erano asciugati si dovevano raccogliere e portare nel tinello dove con molta pazienza venivano stirati con il ferro da stiro, erano di due tipi, uno semplice fatto di una piastra liscia e pesante e l’altro con il forno dove si depositavano al suo interno delle braci, prese dal focolare. In questo modo lo riscaldava per bene ed infatti si doveva usare molta cautela quando si passava sopra alle stoffe evitando di bruciarle, poi si cercava di ripegarle per rimetterle dentro ai bauli ricordandosi di infilarci i sacchettini di lavanda appena colta ed essiccata per farle profumare e poi serviva a tenere lontane le tarme che se attaccano le stoffe di lana c’èra il rischio di trovarle distrutte nel riuso, l’inverno successivo.
Una poesia del grande amico scrittore, poeta e giornalista Ugo Suman sintetizza questo evento così speciale che si viveva nelle casone di una volta.
LA LISSIA GRANDA
La lissia granda gera un finimondo:
un giorno fato a posta par sgobare,
su dei mastèi che no gavèva fondo
tanta la gera la roba da lavare.
Alòra le fameje numerose
le gera tante e piene de putèi
de zii, noni, mame, tosi e tose:
la corte quasi piena de mastèi…
L’acqua la se scaldava a marmitoni
picà de fora, sora la fornela,
e quando la bogìva a brontoloni,
i la portava rente a la mastèla,
col bugarolo par sénare e carboni,
e se colàva pian la lissiarela.
E alla fine terminato il laborioso lavoro della “lissia granda” si festeggiava, ci si ritrovava tutti nel tinello a prendere un tè con dei biscotti di pasta frolla appena sfornati o con un dolce tipico della stagione fatto di composta di ciliege raccolte nel frutteto posto al limite della corte, quello che apriva la via dei campi usata dai carri trainati dalle vacche quando si dovevano raccogliere i foraggi o il grano, le barbabietole o in autunno il granorurco. Una di queste era stata al centro dei discorsi appena raccontati perché percorsa dal garzone del negozio “bocia de botega” quando incontrò la ragazza intenta a lavare le stoffe. Così carina da rimanerne ammaliato e dopo tanti biglietti redatti secondo la sua fantasia e dopo tanti passaggi per rivederla condusse all’altare un grigio giorno di novembre, tra lampi e tuoni e pioggia battente.
Pasta frolla semplice per biscotti o per la base della crostata di marmellata di frutta o di crema pasticcera e frutta: 200 gr. di farina, 60 gr. di zucchero, 140 gr. di burro, 1 tuorlo d’uovo, un pizzico di sale, la buccia gratuggiata di limone o aroma limone o mandorla.
Impastare il tutto molto delicatamente e appena risulta omogeneo realizzare una pallotta che si avvolge con la pellicola e si mette in frigo per 30 minuti; il segreto della pasta frolla è lavorarla il meno possibile. Tirarla fuori dal frigo e stenderla di uno spessore di mezzo centimetro su una piastra da forno e con gli stampini fare tanti biscotti, infornare in forno già caldo a 180° per 15 o 20 minuti infine tirarli fuori e servirli. Se si vuole farli più appetibili, prima di infornarli si possono ricoprire di scaglie di cioccolato fondente.
Pasta frolla diversa, per biscotti: 500 gr. di farina integrale, 120 gr. di zucchero, 100 gr. di burro, 3 uova, un pizzico di sale, la buccia di limone grattugiata o aroma limone, mandorla,vaniglia, una bustina di lievito per dolci, mandorle o nocciole tritate, pinoli, anice a piacere.
Sbattere le uova con lo zucchero e il burro e fare un composto spumoso, aggiungere gli aromi, versare la farina che abbiamo mescolato al lievito ed infine gli altri ingredienti di mandorle, pinoli, nocciole ben tritati. Stendere sulla piastra del forno col matterello fino a formare mezzo centimetro, con gli stampini fare i biscotti, infornare in forno già caldo a 180° per 30 minuti o fino a quando son ben dorati.
Se vogliamo fare una crostata, dopo aver steso parte della pasta su una tortiera dal bordo basso, si deve buccherelare con una forchetta e poi si ricopre con la marmellata di ciliege (o altra a piacere). Con la pasta rimanente si realizza la grata e si inforna per 20 minuti. Appena si è freddata si serve su un piatto da dolci assieme a del tè verde, o vino aromatico tipo Moscato, ancora meglio con Passito. Alcuni usano infornare per alcuni minuti la pasta frolla da sola mettendoci sopra dei fagioli secchi, questo permette alla pasta di cuocere meglio, poi stendono la marmellata altrimenti la parte di pasta che viene coperta dalla marmellata, proprio perché più gelatinosa, non permette al calore di trapassarla e di cuocerla al completo.
Anche oggi è ritornato il desiderio di rimettere la lavanda tra le stoffe che abbiamo appena lavate in uno di quei negozzi di lavasciuga scarsi di occasioni per stare insieme ed anche per far festa.
Per chi vuole prepararsi i sacchetti di lavanda deve cogliere i fiori da qualche pianta messa nel giardino e quando sono ben fioriti e possibilmente alle prime luci del giorno tagliando anche una parte di gambo. Si raccolgono a mezzetti legandoli assieme, si mettono a testa in giù in modo che la clorofilla si concentri sul fiore, in un luogo ben aerato e secco, meglio al sole sotto un portico in corrente d’aria e appena sono seccati si sgranano e si mettono dentro a dei piccoli sacchetti di stoffa di canapa ma vanno bene anche quelli di cotone e poi si intrufolano dentro alle stoffe appena lavate e riposte negli armadi o nei bauli di casa.
Il lavandero di Arquà, nella bella località dei colli Euganei, produce molti articoli con la lavanda ed anche i sacchetti che la contiene, ben decorati e piacevoli, inoltre in questi giorni di massima fioritura della lavanda vi invita alle giornate aperte dove si possono conoscere le molte proprietà di questo fiore adorabile. http://www.lavandetodiarqua.it/
Le foto sono delle collezioni di Anna Pezzin e di Paolo Nequinio