Festa del Redentore

“Ti se pronta, dai ’ndemo”, abbigliarsi in fretta per andare alla festa del Redentore. La festa più importante di Venezia con la partecipazione dei veneziani e dei “foresti” (forestieri) insieme, tutti radunati sulle sponde del canale della Giudecca o per chi può sulle barche addobbate di lumini che invadono lo spazio d’acqua del bacino di san Marco ad attendere il grande spettacolo pirotecnico che in questa notte magica illumina lo spazio d’acqua di fronte alla chiesa del Redentore.
Ma quando è nata questa festa, andando con ordine venne istituita con un voto reso ufficiale dal doge Alvise Mocenigo durante una pestilenza iniziata il 25 giugno del 1575 e terminata nei primi mesi del 1577. Questo il motivo: “ea peste”, anche se a Venezia simili epidemie erano già capitate e basta annotare che agli inizi del 1500 una di esse causò la morte di un pittore famoso di quel periodo, Giorgione. Così pure in questo settimo decennio del Cinquecento muore un altro pittore molto famoso, Tiziano colpito dal morbo assieme al doge Mocenigo non prima che costui abbia posto la prima pietra di una chiesa votiva, su richiesta del Senato e approvata dal popolo ormai esausto e sconsolato dall’epidemia. Se ne prenderà carico il doge succeduto ad Alvise Mocenigo e il patriarca Giovanni Trevisan, che dovrà erigere un nuovo tempio bello e importante, per grazia ricevuta dopo la fine della terribile epidemia.
I documenti raccontano che un trentino che alloggiava a san Marcial giunse a Venezia già malato di peste e come per le altre volte fu sottovalutata la gravità del male infatti in breve tempo dilagò per tutta la città che al tempo era abitata da oltre 190.000 persone. I veneziani vivevano su case in maggioranza costruite in legno, senza servizi igenici, senza fognature e con comportamenti spontanei, tanto che facevano i loro bisogni fisiologici in qualsiasi luogo della città, coscienti che poi l’acqua che ogni tanto la allagava la puliva e la purificava pure. Il porto con le navi alla fonda servivano come vettori per il trasporto di merci, avanti e indietro dai paesi d’Oriente, ma anche come portatori di ogni sorta contagi che con perizia venivano studiati e analizzati presso la facoltà di medicina dell’Università di Padova da cui trarvi le cura adeguate.
Il trentino malato e giunto a Venezia prima aveva soggiornato proprio a Padova ma questa volta i dottori non intercettarono il morbo che anzi li sorprese per la sua velocità di trasmissione tra gli individui ed anche per la sua virulenza. Giunta a Venezia, la malattia, cominciò a mietere vittime tanto che si dovettero creare dei luoghi appositi dove sistemare i malati in isolamento, “qurantena”, scegliendo un’isola debitamente organizzata chiamata “lazzaretto”, dal nome ispirato dal vangelo dove si cita la vita di Lazaro, un povero mendicante pieno di piaghe che chiedeva di essere conpatito ma senza esito, dal ricco “senza nome”, in una delle storie che Gesù raccontava alla gente.
Il “lazzaretto” doveva funzionare da sanatorio per i contagiati, sostenuto dal Senato con l’obbiettivo di circoscrivere il contagio, solo che i morti aumenvano di giorno in giorno e la città spopolava, si corse ai ripari emanando nuove leggi sulla salute pubblica. Leggi sul transito sia diurno che notturno, sugli assembramenti, sulla purificazione degli ambienti, sull’uso di piante officinali che potevano scacciare il morbo, venivano regolamentate dagli organi sanitari, senza esito, perché in poco meno di due anni morirono oltre 60.000 persone e senza risparmiare alcuno anche se i più colpiti sono stati i bambini, le donne, i poveri e i derelitti: alcuni numeri, la città contava 195.863 abitanti passati alla fine dell’epidemia a 134.800.
Una vera strage e per questo motivo il 21 settembre 1576 il doge Mocenigo si ritirò in preghiera nella Basilica di san Marco e assieme al patriarca formularono il voto di far erigere nell’isola di Spinalonga, alla Giudecca, una chiesa, intitolarla a Cristo Redentore come richiesta di grazia sulla fine del contagio. Ad inizio dell’anno 1577 le morti diminuirono sensibilmente e dopo pochi mesi cessarono, subito venne creata una commissione che doveva dirigere la costruzione del tempio, ma prima venne indetto un concorso d’idee per orientare i Magistrati sulla scelta del progetto migliore, alla fine vinse quello del Palladio, un architetto padovano ma vicentino di adozione, diventato famosissimo in quel periodo perché era il progettista delle nuove dimore dei nobili veneziani, ancora oggi possiamo ammirare le ville di campagna da lui progettate, villa Emo a Fanzolo di Vedelago, villa Barovier a Fratta Polesine, villa Piovene a Lugo, villa Capra vicino a Vicenza, villa Pisani a Bagnolo di Lonigo, villa Foscari detta la Malcontenta e tante altre.
Nel giugno 1577 il doge del voto muore, viene sostituito da Sebastiano Venier famoso generale di vascello e nel 1580 muore anche Palladio, così si passa la mano della direzione, non senza le dovute difficoltà, ad Antonio da Ponte e finalmente consegna alla città, nel 1590, la basilica del Redentore che viene consacrata e data all’ordine cappuccino per la sua tutela i quali stabiliscono la ricorrenza ogni terza domenica di luglio, per suo conto il doge e tutto il Senato assieme al Patriarcato dovevano raggiungere la chiesa dopo una solenne processione attraversando lo specchio d’acqua di fronte alla chiesa sopra ad un ponte di barche.
E da allora è grandissima festa per tutti sia veneziani che non, ci si ritrova sul bacino della Giudecca con ogni tipo di barche addobbate di fiori e palloncini di carta colorati e durante la notte vengono illuminati dalle candeline messe all’interno, mentre sulla riva del canale una gran folla di persone rimane in attesa di transitare sul ponte votivo allestito per l’occasione, lungo 334 metri, che anche oggi parte dalle Zattere e arriva fin davanti agli scalini del tempio del Redentore.
Momenti di vera festa anche quando si tiravano fuori dai cestini ogni sorta di ben di dio portato da casa quasi per ricordare l’opera svolta dalle varie “confraternite” che sfamavano i malati di peste a volte anche ospitati nelle barche ormeggiate presso l’isola del “lazzaretto”, tanti erano i contagiati che non riuscivano a trovare posto all’interno del sanatorio eretto nell’isola per far fronte alla moltitudine dei malati ed anche per poterli curare con delle cure adeguate.
Nel pieno della notte i fuochi d’artficio sparati per aria a ciclo continuo richiaravano a giorno tutta la laguna, si cantava, si mangiava e si godeva del cibo portato e si rimaneva fino all’alba per scongiurare la morte e scacciare altre eventuali epidemie. Passarono solo cinquant’anni che il morbo si ripresentò e con la stessa violenza del Cinquecento e ancora una lista infinita di decessi e un’altro voto alla Vergine Santissima che portò alla realizzazione della basilica della Salute.
E come allora a tutti buona festa.
Questi sono i piatti che i veneziani preparavano e che possiamo replicare per consumarli nelle barche ormeggiate nel canale della Giudecca, oggi uguale a ieri, in ugual misura si possono portare sul posto trovato sulle rive del bacino e così adeguato da consumarli in santa pace.
Pasta e fagioli: 600 gr. di fagioli borlotti di Lamon (tipici del paese bellunese famoso per tali legumi), 200 gr. di pasta tipo ditalini (sia di pasta all’uovo che di grano duro), 40 gr. di sedano, 40 gr. di carote, 40 gr. di cipolle, 2 patate, alloro o rosmarino, 4 l. di acqua, 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva, sale grosso, pepe.
Lavare i fagioli lasciandoli in ammollo per alcune ore in acqua tiepida, prendere una pentola e fare un soffritto con la cipolla lasciata rosolare in poco olio di oliva senza brunirla, aggiungere le verdure, carote e sedano tagliati a pezzi, poi i fagioli con l’acqua e si lasciano bollire a fuoco dolce e lento per favorirne la buona cottura. E qui vale l’esperienza per tenere il fagiolo ancora saldo e l’acqua ridotta almeno un poco, si aggiungono la pasta e le patate pelate e tagliate a pezzi assieme all’alloro o al rosmarino, si continua la cottura fino a quando la pasta è ben cotta, che se è con l’uovo ci vuole meno per cucinarla e di pari passo coi fagioli, se è di grano duro il tempo per la cottura è maggiore ma in questo caso i fagioli non si devono sfaldare. Questo piatto conviene farlo il giorno prima così risulta molto più buono il giorno dopo e appena intiepidito ci mettiamo sopra del grana grattato di fresco.
Sarde in saor: 1 kg. di sardelle belle grosse e freschissime, 500 o più gr. di cipolla bianca dolce, 30 gr. di pinoli, 30 gr. di uva passa sultanina, 2 bicchieri o più di aceto di vino bianco, olio per friggere e olio extravergine per la cottura della cipolla.
Pulire le sardelle, eviscerarle, eliminare le teste, infarinarle e friggerle in abbondante olio caldo ma non bollente, come sono dorate scolarle e adagiarle su della carta assorbente per togliere l’olio in eccesso, intanto in una padella far appassire in olio extravergine di oliva la cipolla tagliata a striscioline finissime sul fuoco molto dolce, come comincia a imbiondire versare l’aceto, i pinoli, l’uva sultanina fatta precedentemente ammollare in acqua tiepida. Poi si prende una pirofila e si comincia facendo uno strato di sardelle e uno strato di salsa di cipolle, uno strato di sardelle e uno di salsa fino a terminare mettendo sopra lo strato di cipolle. Si lascia riposare per un giorno in luogo fresco, sono pronte per essere mangiate il giorno dopo.
Peperonata: quattro grossi peperoni, verdi, rossi, gialli, quattro o cinque melanzane, una grossa cipolla bianca e tre bei pomodori, sale, olio extravergine di oliva, poca acqua.
Lavare tutta la verdura e tagliarla a pezzettoni cercando di togliere tutte quelle parti che hanno i semi sia nei peperoni che nelle melanzane e se necessario anche nei pomodori, (questi vanno sbollentati interi per poter togliere con facilità la buccia), fare un soffritto con della cipolla e poi aggiungere tutto il resto della verdura in una pentola con poca acqua e cominciare la cottura che deve essere fatta su fuoco dolce, ogni tanto mescolare e aggiustare con del sale grosso e anche tre cucchiai di olio. Cucinare per un certo tempo in modo da rendere tutta la verdura ben tenera e tutta amalgamata e a questo punto aggiustare di sapore mettendo alcune foglie di basilico, oppure origano o salvia. Lasciare raffreddare e mangiare il giorno seguente.
Un vino da portare con questi piatti si può scegliere tra il Cabernet Franc, il Merlot di pianura o il Pinot Nero, sia della Piave che di altre zone vocate, tutti vini profumati che creano al palato una festa di sapori a volte intrigante, da bere con attenzione onde evitare di cadere dentro l’acqua facendo delle manovre scomposte, quando ci troviamo in barca. Per gli altri a riva invece, se deve essere festa che festa sia e così “beviam tutti in allegria”, ma non ubriacatevi che poi a smaltire la sbornia son dolori e magari rimane un brutto ricordo.